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Massimo Troisi

Ricomincio da Massimo Troisi

Il percorso dei sentimenti nel cinema del "Pulcinella senza maschera"

20 minuti di lettura

Lo chiamavano “Pulcinella senza maschera” e “il comico dei sentimenti”. Erede di Eduardo De Filippo e Totò per la parlata napoletana spezzata, frammentata, che gira attorno ai problemi senza trovare una risposta, segno di una timidezza che col tempo diventa sicurezza di sé e presa di responsabilità verso i sentimenti. Questo era Massimo Troisi (1953-1994), attore e regista che ha saputo dare voce a sentimenti difficili da comunicare, autore di gag inimitabili che ancora oggi in tanti ricordano.

Chi era Massimo Troisi?

Massimo Troisi nasce a San Giorgio a Cremano, in provincia di Napoli, il 19 febbraio 1953. Ultimo genito dei sei figli di Alfredo, ferroviere, ed Elena, casalinga. Con la famiglia si trasferirà in via Cavalli di Bronzo 31 (la stessa via citata dal padre di Gaetano in Ricomincio da tre quando chiede il miracolo alla Madonna) vivendo con i nonni materni, gli zii e i loro cinque nipoti, una casa che Troisi definì in una sua intervista del 1984 con Pippo Baudo “una compagnia stabile” con “i nonni capocomici”.

Fin da bambino soffre di febbre reumatica e sviluppa una degenerazione della valvola mitrale, che gli sarà fatale con lo scompenso cardiaco che gli procurerà la morte a soli 41 anni. La scoperta della malattia sconvolge l’esistenza di Troisi; nonostante tutto, l’attore partenopeo comincia a interessarsi all’arte, scrivendo poesie e recitando a teatro. Dopo i primi spettacoli nei teatri parrocchiali, nel 1970 mette in scena assieme Costantino Punzo, Peppe Borrelli e Lello Arena – quello che sarà la sua spalla sia al cinema che a teatro – la farsa E spirete dint’ ‘a casa ‘e Pulcinella di Antonio Petito.

Dopo questo primo successo, Troisi continuerà a recitare a teatro con il trio La Smorfia assieme al già citato Arena e a Enzo De Caro, di cui per esempio è celebre lo sketch dell’Annunciazione, dove Lello Arena, nei panni dell’Arcangelo Gabriele, entra in scena con la trombetta urlando “Annunciazione! Annunciazione!”. Il trio, che durerà fino agli inizi degli anni Ottanta, realizza sketch che sovvertono i costrutti umani e sociali giocando con l’espressività dei gesti e del linguaggio e inscenando la timidezza, il pudore e il sottinteso.

Troisi debutta successivamente al cinema nel 1981 come attore e regista con Ricomincio da tre, film sceneggiato assieme ad Anna Pavignano, con cui l’attore di San Giorgio a Cremano sceneggerà tutti i suoi film a eccezione di Non ci resta che piangere (1984). Siamo in un periodo di grande crisi per l’industria cinematografica, un momento che coincide con il terremoto dell’Irpinia nel 1980 e l’affermazione del femminismo, e il personaggio di Gaetano ottiene un grande successo di pubblico, al punto che la critica lo acclama come “il salvatore del cinema italiano”, cosa che Troisi accoglie nel seguente modo:

Io nun saccio niente ‘ e niente. Adesso invece vengono i giornalisti e mi chiedono: “Troisi, tu che ne pensi di Dio?”, “Troisi, come si possono risolvere i problemi di Napoli?”, “Troisi, come si può esprimere la creatività giovanile?”. Ma che è? Pare che invece ca ‘ nu film io ho fatto i dieci comandamenti. Pare che so’ l’unico intelligente in Italia.

Da questo momento in poi, Troisi inizierà a collaborare con i più grandi del cinema italiano come Roberto Benigni, Ettore Scola e Marcello Mastroianni. Da ricordare, inoltre, il sodalizio con il cantante Pino Daniele, fino ad arrivare al successo internazionale con Il postino, l’ultimo successo di Massimo Troisi acclamato anche all’estero, ma che l’attore non ha potuto testimoniare per via della morte prematura.

Massimo Troisi, un “Pulcinella senza maschera

Massimo Troisi

Per parlare di Massimo Troisi, sarebbe meglio ricominciare letteralmente da tre. In questo caso tre figure importanti per il comico partenopeo: Pulcinella, Eduardo e Totò. Sul primo Troisi dichiarò quanto segue:

[…] tutti volevano usare Pulcinella. Rivalutarlo. C’era Pulcinella-operaio, e cose del genere. A me questa figura pareva proprio stanca. Pensavo che bisognasse essere napoletano, ma senza maschera, mantenere la forza di Pulcinella: l’imbarazzo, la timidezza, il non sapere mai da che porta entrare e le sue frasi candide.

Troisi prende, dunque, la maschera più famosa di Napoli togliendola dalla città partenopea e rendendola più universale. Di napoletano mantiene solo la parlata: se per l’attore partenopeo parlare napoletano è “un fatto ideologico, una difesa, il non accettare le regole”, per il critico Mario Sesti, invece, nel documentario del 2013 Massimo. Il mio cinema secondo me, corrispondeva anche a un certo “ermetismo dialettale, espressione dell’incapacità di comunicare con la società”.

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Sempre Sesti afferma che nel cinema di Troisi si possono trovare due grandi tradizioni della recitazione partenopea: il naturalismo di Eduardo, ovvero “la capacità di riempire attraverso dettagli e movimenti del corpo la propria apparenza di realismo”, e l’arte della parola di Totò. Il parlare di Troisi è un parlare smozzicato, come se cercasse le parole, segno di una certa difficoltà nel confrontarsi non solo con personaggi femminili complicati, ma anche con l’incapacità a dare una risposta a ciò che vive, delegando la responsabilità di ciò agli altri. Dopotutto, come dice Camillo Pianese di Le vie del signore sono finite (1987), “una poesia la dici in bocca. Chi l’ascolta la fa intera”.

La mancanza di responsabilità dei sentimenti

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Con il suo cinema Massimo Troisi intraprende un percorso sui sentimenti, piccoli drammi che diventano commedia, perché per l’attore “raccontare una storia felice mi suona falso”. Il percorso di Troisi è un percorso che parte da una prima immaturità nell’accettare i sentimenti e assumersi la responsabilità degli stessi a una loro graduale accettazione, riprodotto fedelmente da un modo di parlare che da smozzicato si fa più coeso.

La prima tappa del percorso di Troisi è, dunque, la paura di riconoscere i propri sentimenti. In Ricomincio da tre, infatti, Gaetano, napoletano non emigrante, ma come dice lui “curioso di conoscere e viaggiare”, trova difficile comunicare il suo amore per Marta (Fiorenza Marchegiani). Per quest’ultima il protagonista è “troppo preoccupato di se stesso”, di usare le parole sbagliate nell’approcciarsi agli altri. In questo senso è emblematico, infatti, quando il prete americano Frankie (Vincent Gentile) gli dice che “solo con la parola ci potremmo capire meglio” e Gaetano risponde “quale parola?”.

Gaetano, inoltre, dimostra la sua incapacità non solo tenendo per sé i sentimenti di gelosia verso Marta quando parla della penicillina di Alexander Fleming o facendo smorfie a letto mordendo il cuscino, ma anche quando alla fine del film dice alla donna di non chiamare il figlio “Massimiliano”, un nome simile a quel “Massimo” che non vuole che nasca un bambino col suo stesso nome e che probabilmente affronterà i suoi stessi problemi.

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L’incapacità di affrontare i problemi è evidente anche in Scusate il ritardo (1983). Divertente è il confronto fra Vincenzo Rocco (Troisi) e Tonino (Lello Arena). Se quest’ultimo si lamenta del fatto che la fidanzata Marisa l’abbia lasciato per uno svedese e medita addirittura il suicidio, oltre a usare espressioni come “’un sacc’ c’agg’ a ricere”, Vincenzo si preoccupa di più per il freddo che prende sotto la pioggia e invita Tonino a stare a casa invece che stare sempre per strada se si vergogna, perché “tutt’e cose van da sé, non s’hanno e’ dicere”.

Vincenzo come Gaetano non sa esprimere i propri sentimenti, tantomeno risolvere i problemi degli altri: quando Anna (Giuliana De Sio) dice di amarlo, lui risponde semplicemente “mi fa piacere”, e nel momento in cui la giovane vuole comprendere i problemi con Vincenzo, quest’ultimo pensa alla partita fra il Napoli e il Cesena. Il fatto di non voler assumersi la responsabilità è presente anche qui sul finale, nel momento in cui Anna dice “sinceramente” e Vincenzo risponde “No, perché? Puoi pure dire una bugia”, a riprova del fatto che Vincenzo continua fino alla fine a evitare i suoi sentimenti.

La consapevolezza dei sentimenti

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I personaggi di Troisi cominciano, però, a poco a poco a rendersi conto dei propri sentimenti, a non avere vergogna di comunicarli agli altri e a non avere timore ad assumersene la responsabilità. Cominciano ad assumere sicurezza di sé anche e soprattutto attraverso la parola, che riempie sempre più gli spazi che l’attore partenopeo colmava con la gestualità del corpo.

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È interessante considerare come questa graduale evoluzione inizi con due film che sono ambientati in epoche e contesti diversi da quello napoletano dei primi film: Non ci resta che piangere, ambientato nella campagna toscana e in Spagna con un salto nel tempo al 1492, e Le vie del signore sono finite, ambientato in epoca fascista fra l’immaginaria Acquasalubre (probabilmente in Campania) e Parigi. Questo scollamento temporale e spaziale rimarca l’incomunicabilità dei personaggi di Troisi, ma è proprio questa ambientazione altra che porta all’accettazione del proprio vissuto, a comprendere che quello che si vive individualmente ogni giorno lo vive chiunque in qualsiasi luogo e situazione.

In Non ci resta che piangere, il bidello Mario (Troisi) e il professore Saverio (Roberto Benigni) si ritrovano catapultati nel 1492 fra l’immaginario paese di Frittole e la Spagna in un film che ci regala chicche memorabili come il dialogo fra Mario e un prete, dove il primo gli dice “Ricordati che devi morire” e l’altro risponde “Aspè che mo’ me lo segno proprio”, oppure quando Mario spaccia Nel blu dipinto di blu e Yesterday come sue canzoni per fare colpo su Pia (Amanda Sandrelli).

In questo film Troisi ci mostra come sia impossibile cambiare il corso degli eventi, in particolare rimediare a un amore finito. Il motivo per cui, infatti, Saverio ha voluto portare in Spagna Mario era perché voleva impedire a Cristoforo Colombo di partire per le Indie e scoprire, dunque, l’America, di modo che il fidanzato americano della sorella Gabriellina non sarebbe mai nato e non l’avrebbe mai ferita. Saverio e Mario, però, non riescono a impedire la partenza di Colombo, e ai due non resta letteralmente che piangere sull’inevitabile, ovvero una storia d’amore finita che mai ritornerà.

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In Le vie del signore sono finite, invece, Camillo Pianese è un barbiere che continua a dire bugie per cercare l’attenzione degli altri usando il corpo invece che le parole. Una delle sue bugie è la sua invalidità: Camillo gira stando su una sedia a rotelle dopo aver perso l’uso delle gambe a causa della rottura del suo fidanzamento con Vittoria (Jo Champa). Questa invalidità del protagonista viene sempre ricondotta alla sua incapacità di andare avanti dopo un amore che credeva finito.

Vittoria non ha mai smesso di fatti di amare Camillo, il quale non ha mai voluto accettare a se stesso la sua gelosia. Nel momento in cui, però, il barbiere riprende a camminare, comprende ad accettare la vera natura dell’amore: un sentimento che fa male, che porta con sé la gelosia, necessaria per continuare a provare affetto per una persona amata.

Pensavo fosse amore…lo era

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Troisi, dunque, ritorna nei suoi due ultimi film, ovvero Pensavo fosse amore…invece era un calesse (1991) e Il postino (1994, regia di Michael Redford e, anche se non accreditato, dello stesso Troisi) al contesto campano dei suoi primi film con una sicurezza maggiore dei suoi personaggi verso la realtà. Quello che succede nel loro quotidiano succede ovunque, e anche se si fugge dalla propria realtà, non la si dimentica, così come non si dimenticano l’amore e il dolore che ci provoca.

Pensavo fosse amore…invece era un calesse nasce dall’idea di Troisi che quando l’amore finisce è come con un calesse: “bisogna avere il coraggio della fine, piano piano, con dolcezza, senza fare male… ci vuole lo stesso impegno e la stessa intensità dell’inizio”. L’amore di Tommaso per Cecilia (Francesca Neri) è un amore che finisce perché imbrigliato nella quotidianità della vita di coppia, dove lei è in preda alla gelosia, mentre lui, una volta che ha costruito qualcosa con lei, si sente stanco e spento. L’amore fra i due si rinnova, però, nel momento in cui i due capiscono che ormai non hanno più niente da dirsi, quando sanno che i loro sentimenti non possono più rinnovarsi, perché l’amore è anche questo: saper dire addio e lasciare andare.

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Nella delusione amorosa e nella noia, però, si può trovare la bellezza. Questo è quello che mostra Il postino, ultimo film di Massimo Troisi, realizzato l’anno della sua stessa morte, e da considerarsi un suo testamento spirituale. In questo film, trasposizione cinematografica del romanzo Il postino di Neruda di Antonio Skármeta, il postino Mario Ruoppolo stringe un forte legame d’amicizia con il poeta cileno Pablo Neruda (Philippe Noiret).

Un’amicizia che porta il protagonista a imparare “ad usare la lingua non solo per attaccare i francobolli” attraverso il linguaggio più universale di tutti, quello della poesia, che permette al protagonista di riuscire ad amare e a confessare i propri sentimenti verso Beatrice (Maria Grazia Cucinotta), ma anche ad apprezzare le piccole cose della quotidianità con tutte le sue gioie e i suoi dolori, poiché “il mondo è metafora di qualcosa”, e la bellezza e l’amore esistono per chi sa coglierli e comprenderli.

Ricomincio da Massimo Troisi: imparare i sentimenti

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A quasi trent’anni dalla sua scomparsa, il cinema di Massimo Troisi ha ancora qualcosa da dire al mondo d’oggi. Ancora attuale, infatti, è la nostra incapacità a comunicare i nostri sentimenti, in quanto cerchiamo sempre di nasconderci senza assumerci la responsabilità di ciò che proviamo. Ma la vita, ci ha mostrato Troisi, è meravigliosa per questo motivo: per i nostri drammi quotidiani sentimentali, per la nostra timidezza nei confronti dell’amore, e per la nostra capacità di riuscire ad andare avanti nonostante le delusioni.

Mi scuso con tutti coloro che non ho avuto il tempo di salutare, ma con tutta la buona volontà con la morte non si può proprio ragionare. Prego qualcuno dei miei amici di avvertire Peppino Giuffrida con il quale avevo un appuntamento domani a mezzogiorno fuori dal Bar San Giorgio che forse non potrò andare. Desidero, inoltre, sperando di fare un’opera buona, donare le mie orecchie a qualcuno che ora può averne più bisogno di me.

Massimo Troisi, da Morto Troisi, viva Troisi! (1982)

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Laurea magistrale in Lingue e Letterature Europee ed Extraeuropee presso l'Università degli Studi di Milano con tesi in letteratura tedesca e allievo dell'edizione 2021 del Master "Il lavoro editoriale" della Scuola del Libro.
Crede fortemente nel fatto che la letteratura debba non solo costruire ponti per raggiungere e unire le persone, permettendo di acquisire nuovi sguardi sulla realtà, ma anche aiutare ad avere consapevolezza della propria persona e della realtà che la circonda

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