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Mean Girls: guida definitiva alla Bibbia delle ragazze

Vocabolario di stile e pessima condotta, Mean Girls è ancora un cult in décolleté: irriverente, scorretto, pazzesco.

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8 minuti di lettura

Nel 2004 i DVD si vendevano con il cellophane: erano i film a prezzi modici, quelli con il “virgola 99” che andavano a rete contro le resistenze dei genitori. Mentre mamma e papà sceglievano il nuovissimo forno a microonde o optavano per il Dolby surround di prima generazione, tu eri lì, di fronte ai guilty pleasures (un termine che avresti imparato dopo, molto dopo) della domenica o delle vacanze estive. Nel grigiore delle confezioni plasticose, vissute nelle mani di chi – prima dell’acquisto – voleva scongiurare buchi di trama leggendo il plot sommario della quarta di copertina,  imperava una tonalità abusata in tenera età ma dalla sintassi ancora sconosciuta: il rosa.

Mean Girls, di Mark Waters, divenne l’inarrivabile Bibbia delle ragazze, una guida accurata per uno scorretto utilizzo dell’adolescenza, il manuale del fashion condensato in 97 minuti di pellicola: merito del cast – tra i migliori mai selezionati nella strabordante categoria dei teen movies all’alba del nuovo millennio – e di una liminale way of comedy, adattata con dovizia da Tina Fey (astro consolidato del SNL) sull’originale letterario Queen Bees and Wannabes di Rosalind Wiseman, supportata nell’eccesso ascensionale da One way or Another, successo vintage per i Blondie nella Billboard Hot 100 del ‘79. 

Se hai davvero bisogno di leggere la trama, You can’t sit with us!

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La sedicenne Cady Heron (Lindsay Lohan) conosce il regno animale, ma non lo ha mai vissuto davvero. Scolarizzata in Africa, per volontà dei genitori zoologi ricercatori, Cady torna ad Evanston per frequentare gli ultimi anni di scuola prima del college, ma l’impatto con le dinamiche scolastiche è destabilizzante. L’amicizia con i veterani Janis Ian (Lizzy Caplan) e Damian Leigh (Daniel Franzese) si rivela una mappa istruttiva per indagare la piramide sociale di adolescenti in preda a crisi ormonali e identitarie: al vertice della gerarchia, se Northshore fosse Cosmopolitan, il regno incontrastato delle Barbie, guidate dalla temuta, odiata, amatissima Regina George.

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L’evanescenza della nuova arrivata, dea e addizione non-artificiale alla geografia umana e seriale del liceo, muove la curiosità dell’ape regina che, nascosta dietro il velo dell’ammirazione, controlla a stretto giro le mosse della nemesi.

In Mean Girls, Cady diventa una Barbie con un duplice scopo: scalare la piramide sociale, al fianco di Regina George, e svelare le regole d’esistenza della categoria alla platea delle loro vittime. Il gioco risveglia la crudeltà tipicamente femminile quando Regina ostacola l’amore tra Cady e Aaron Samuels (Jonathan Bennett): è il momento di destituire la stronza

Codici e linguaggi di Mean Girls

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Nel poster promozionale di Mean Girls, la triade maligna di Regina George (Rachel McAdams), Karen Smith (Amanda Seyfried) e Gretchen Wieners (Lacey Chabert) definiva – per contrasto  all’evidente inattitudine sociale di Cady Heron (Lindsay Lohan) – le regole per la sopravvivenza nelle high schools, devote alla supremazia delle Barbie: erano le ragazze privilegiate, di buona famiglia, quelle osannate dai mediani nel complesso edificante dell’emulazione, ad influenzare la condotta dei coetanei, le loro scelte accademiche, amicizie, love affairs, musica ascoltata e outfit esibiti.

Il controllo si esercitava attraverso una drammatica adesione a codici e linguaggi condivisi, condizione d’esistenza per l’inclusività di gregge. La copertina era l’affresco di una gerarchia sociale: la trinità popolare sulla destra, succinta in abiti rosa (una foto probabilmente scattata di mercoledì, ndr.) poco inclini all’immaginazione, investita di adorante venerazione, rigorosamente in tacchi a spillo e mini skirt frangiate, e sulla sinistra l’exemplum dell’incontaminata purezza adolescenziale, una Lindsay Lohan acqua e sapone, con i jeans a zampa d’elefante e t-shirt casual.

A distinguerle, in due emisferi di pagina, la scure verticale del titolo in fucsia. Dalle ragazze cattive era bene guardarsi le spalle. Subdole, meschine, disposte a tutto pur di mantenere intatto il proprio status quo, le Barbie incarnavano quel tremendum et fascinans che il teologo tedesco Rudolf Otto presentava come totalmente Altro nell’opera del 1917 Das Heilige: il sacro, assunto nel suo valore universale, diventa per l’uomo un mistero “alieno”, straniero e insondabile, origine dello stupore al di là del consueto. 

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In Mean Girls, Regina George incarnava tutto ciò che qualsiasi liceale avrebbe voluto essere: gambe chilometriche, pelle perfetta, capelli invidiabilmente biondo platino e un’aura divina, divisticamente esaltata dalle masse, senza reali meriti se non quello di rendere la vita impossibile ai coetanei. La rivolta sociale “dei margini” assunse nel 2004 la fisionomia di un manuale di ascesa (e sopravvivenza) generazionale per chiunque si trovasse a navigare nel mare tumultuoso del liceo: il mondo delle ragazze, indiscusse protagoniste, diventò un microcosmo normato da precise regole di costume a cui doversi attenere per non rimanerne schiacciati, o peggio, esclusi. Perché l’odio, l’interesse, la rabbia costituivano – comunque – un sentimento migliore dell’indifferenza. Mean Girls rovescia l’archetipo narrativo (quello secondo cui la ragazza “bruttina” e senza speranze riesce grazie ad un gruppo di amici strambi a destituire la regina dal trono e a conquistare il cuore del principe): Cady Heron è, invece, più regina della stessa Regina, moralmente complessa, compiaciuta della repentina discesa della nemesi, esaltata dal potere che ne consegue e dai riflettori prima sconosciuti.

La nuova legge stravolge la classicità dell’iter: la bella ragazza appena arrivata si converte al male che voleva, in origine, sconfiggere per assumerne il controllo. Il polo positivo diventa il negativo e viceversa. Il male originale trionfa trasformandosi in vittima e si ricongiunge, come polo positivo nell’epilogo, con il positivo ripristinato dalla protagonista redenta.

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L’ironia dissacrante di Mean Girls distinse l’eccesso dall’equilibrio, tratteggiando l’individualità dei suoi caratteristi attraverso una lucida, acutissima antologia di idiomi – transfert lessicale di un esuberante cosmo femminile.


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25, Roma | Scrittrice, giornalista, cinefila. Social media manager per Cinesociety.it dal 2019, da settembre 2020 collaboro con Cinematographe per la stesura di articoli, recensioni, editoriali, interviste e junket internazionali.
Dottoressa Magistrale in Giornalismo, caposervizio nella sezione Revisioni per NPC Magazine, il mio anno ruota attorno a due eventi: la notte degli Oscar e il Festival di Venezia.

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