Nel passare in rassegna la filmografia di Martin Scorsese, ormai annoverato unanimemente tra i più grandi registi americani di sempre, ci sono alcuni titoli che rimangono più nascosti e a cui si dà meno rilevanza rispetto a quanto meriterebbero. Seppur a livello critico la sua importanza sia ormai storicizzata, Mean Streets fa parte di quei titoli di cui si parla sempre troppo poco.
Esattamente cinquant’anni fa, il 14 ottobre 1973, usciva nelle sale americane Mean Streets, il terzo lungometraggio del regista newyorkese, un piccolo grande capolavoro, già essenzialemente e profondamente scorsesiano.
Tra mafia e Small Time Crooks
È sempre notte nella Little Italy dipinta da Martin Scorsese. Si tratta di un mondo lugubre e oscuro che è lo sfondo del racconto ma è sempre anche qualcosa di più, entra nella profondità dei personaggi e li avvolge, come il diabolico colore rosso del locale. Mean Streets non è, appunto, propriamente un mob movie. La mafia manifesta la sua presenza, ma rimane costantemente distante, è un fantasma che perseguita i personaggi dal fuoricampo. In un certo senso, a pensare che Il Padrino (The Godfather, 1972) esce l’anno precedente, questo film di Scorsese si può considerare come un suo controcampo.
I protagonisti sono dei piccoli criminali di poco conto, frutto di quel mondo malavitoso in cui sono fatalisticamente incastrati, e vivono nevroticamente una profonda scissione interiore tra l’immaginario criminale romanticizzato (quello del Padrino, appunto) e una realtà cruda e sordida.
In realtà, nella notturna Little Italy di Mean Streets regna la noia e i personaggi che la abitano sono degli inetti senza qualità che rimbalzano tra piccoli debiti, problemi di coppia e sensi di colpa, ed è proprio la loro condizione di eterni sconfitti in un mondo criminale da cui fuggire è impossibile che conduce alla dissoluzione e all’autodistruzione.
Mean Streets e Charlie
Charlie (Harvey Keitel) è il protagonista di questo racconto ed è suo lo sguardo attraverso cui lo spettatore vede il film. A volte si sente anche il voice over dei suoi pensieri che irrompono nell’iperrealismo della messa in scena. Charlie, Johnny Boy (Robert De Niro) e i tutti i personaggi secondari, non sono che sagome picaresche che tentano di barcamenarsi in un mondo spietato di cui sono allo stesso tempo i figli e i reietti.
Il contesto soffocante della condizione che vivono si manifesta continuamente nella messa in scena con dei campo ingombro che collocano continuamente i personaggi in uno spazio limitato, incastrati tra il fuori fuoco del primo piano e dello sfondo.
Questi personaggi prendono linfa anche dall’immaginario cinematografico: una versione noir de I Vitelloni (Federico Fellini, 1953), con la loro analoga inettitudine e mancanza di prospettive, o anche di Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle, Jean-Luc Godard, 1960), nel segno di una vita condotta sul filo dell’immaginario, e altri ancora. Il cinema fa già parte dello sguardo scorsesiano, i personaggi vanno al cinema a vedere Sentieri Selvaggi (The Searchers, John Ford, 1956), una sorta di fuga dalla metropoli, oppure nel finale l’omicidio di Johnny Boy è come “duplicato” dal film che sta guardando in tv lo zio di Charlie, Giovanni (Cesare Danova).
Lo scontro tra spirituale e reale in Mean Streets
You don’t make up for your sins in church. You do it in the streets. You do it at home. The rest is bullshit and you know it.
Charlie
Già la prima frase pronunciata da Charlie, mentre lo schermo è ancora nero, evidenzia l’eterna e irrisolvibile contraddizione tipicamente scorsesiana tra la spiritualità e la realtà. Si tratta di una scissione emblematica che va a intaccare anche lo stile visivo: da un lato Scorsese dipinge un quadro urbano iperrealistico, soffocante e sordido, attraverso una messa in scena di matrice quasi documentaristica, con macchina a mano e movimenti che manifestano sempre in modo marcato la regia; dall’altro lato le esplosioni di montaggio e le suggestioni con la messa a fuoco danno vita a preziose astrazioni che rompono la continuità del realismo.
Mean Streets vive di una tensione che è costantemente sul punto di rottura, che è quella emotiva dei personaggi pronti ad esplodere in raptus violenti, quella di una messa in scena che perde la sua posa in movimenti di macchina e montaggi convulsi e, infine, quella di un mondo in apparente stasi che nasconde violenza e brutalità. L’inquadratura finale, con una tapparella che si chiude prima nel nero dei titoli di coda, suggerisce proprio una realtà feroce destinata a rimanere celata, nascosta nel chiasso della metropoli.
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