Uscito nelle sale nel 1991 e vincitore di riconoscimenti come Miglior film, Miglior montaggio e Miglior sonoro ai David di Donatello nel 1991 e l’Oscar al Miglior film straniero nel 1992, Mediterraneo di Gabriele Salvatores è uno di quei film che a distanza di anni continua a conquistare gli appassionati e non della settima arte.
Restaurato in 4K nel 2017 da Infinity, Mediterraneo è il terzo e ultimo film della «Trilogia della fuga» assieme a Marrakech Express (1989) e Turné (1990). Inoltre, È ispirato al romanzo Sagapò (1953) di Renzo Biasion, ed è basato su soggetto e sceneggiature di Enzo Monteleone.
Cosa racconta «Mediterraneo»
Nel 1941, un gruppo di soldati italiani – «superstiti di battaglie perdute», «sbandati di reggimenti sfasciati», «un plotone di richiamati» – guidati dal tenente Raffaele Montini (Claudio Bigagli) sbarca a Megisti (isola di Castelrosso), un’isola semi-deserta nel Mar Egeo, per una missione di osservazione e collegamento durante la Campagna italiana in Grecia.
Parafrasando il film stesso, il gruppo che sbarca sull’isola è formato da persone che «avevano tutti più o meno quell’età in cui non hai ancora deciso se mettere su famiglia o perderti nel mondo». Sono persone che giungono su quest’isola per perdersi e ritrovare se stessi.
Oltre al già citato Montini, insegnante di greco e latino al ginnasio e pittore (molto simile a Renzo Biasion, il cui romanzo Sagapò ha ispirato il film), vi sono: il sergente Nicola Lorusso (Diego Abatantuono), che ha combattuto la Campagna d’Africa; Colasanti (Ugo Contini); l’attendente Antonio Farina(Giuseppe Cederna); i fratelli montanari Libero e Felice Munaron (Memo Dini e Vasco Mirandola); il disertore Corrado Noventa (Claudio Bisio), che vuole tornare dalla moglie incinta, e il mulattiere Eliseo Strazzaboschi (Gigio Alberti) con la sua asina Silvana.
Analisi del film: fuga e ricerca di un’utopia
Il film si apre con la seguente citazione da Elogio della fuga di Henri Laborit: «In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare». In una sua recente intervista per “IO Donna”, Gabriele Salvatores ha spiegato così questo riferimento al filosofo francese:
Viene dall’Elogio della fuga dove Laborit dice anche che quando la tempesta è forte, se sei in barca, l’unica cosa che puoi fare è ammainare tutte le vele e chiuderti sottocoperta. Si chiama “cappa secca”, è una condizione per cui non governi più la barca, non vai più dove volevi andare, perdi il controllo, però ti salvi la vita e può anche capitarti di percorrere rotte non battute e di approdare a luoghi sconosciuti e interessanti. Volevo sostenere la bellezza di lasciarsi aperti a vie di fuga, non di fuggire le responsabilità.
La storia rappresentata da Mediterraneo, dunque, si configura dall’inizio alla fine (si chiude con la dicitura «Dedicato a tutti quelli che stanno scappando») come ricerca di un luogo utopico dove, citando Roberto Escobar de “Il Sole 24 Ore”, «sia possibile essere metropolitani senza soccombere all’apologia imbecille del successo, all’immoralità del carrierismo».
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Vale la pena ricordare che questo film è stato girato agli inizi degli anni Novanta, sul finire dello yuppismo, fenomeno che faceva della ricerca del successo a ogni costo e dell’arrivismo sociale un suo carattere fondante, ma dove allo stesso tempo imperversava lo spaesamento politico degli italiani di allora alla continua ricerca di un punto di riferimento.
«Mediterraneo»: un viaggio intriso di mito
Mediterraneo di Gabriele Salvatores è un film intriso di mito dall’inizio alla fine. I richiami alla mitologia greca sono evidenti fin dall’inizio: il viaggio intrapreso dal tenente Montini e dalla sua truppa per giungere sull’isola semi-deserta dell’Egeo ricorda quello di Ulisse e dei suoi compagni per mare.
L’isola a cui approdano i soldati è chiamata non Castelrosso – a est di Rodi, dove il film è stato girato – bensì Megisti, il nome con cui è conosciuta nella mitologia greca. Questo elemento toponomastico, assieme a una colonna sonora dal ritmo cullante e ipnotico e un’ambientazione fatta di case spoglie e un paesaggio roccioso costellato da arbusti e sterpaglie, inseriscono la vicenda narrata in un tempo sospeso e uno spazio primordiale e arcaico, ovvero il tempo e lo spazio del mito.
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Intrisi di mitologia sono anche i personaggi. La pastorella greca (Irene Grazioli) sedotta – e poi abbandonata – dai fratelli Munaron ricorda molto, infatti, la ninfa Callisto, sedotta e poi abbandonata da Zeus. Da ricordare anche la prostituta Vassillissa (Vana Barba), la cui bellezza seduce il gruppo di militare italiani come fosse la maga Circe, per poi innamorarsi di Farina.
Altri due personaggi secondari interessanti sotto questo punto di vista sono il tenente Carmelo La Rosa (Antonio Catania) e il pescatore turco Aziz (Alessandro Vivarelli) richiamano fortemente alla mitologia greca. La Rosa, con il suo arrivo con l’aeroplano nella famosa scena della partita di calcio dove Farina è intento a calciare il rigore a Lorusso, rappresenta Ermes, il messaggero degli dei, colui che annuncia agli altri l’armistizio dell’8 settembre («tutti gli anni c’è l’8 settembre, anche il 9 e il 10» risponde Lorusso) e che s’incaricherà di avvisare gli inglesi per riportarli in Italia. Aziz, invece, incarna i Lotofagi, mitico popolo della Cirenaica che offrivano il frutto del loto per far perdere la memoria ai viaggiatori, che con il suo «fumo dell’oblio» porta i protagonisti a dimenticarsi della loro vita precedente e a ricominciare da capo.
Perdersi e ritrovarsi a Megisti
In questo viaggio sospeso nel tempo del mito, di fondamentale importanza è il tema dell’oblio e la ricerca di se stessi. L’oblio è ben tematizzato da un motivo ricorrente, che è quello dell’acqua, che rimanda al fiume Lete, e pertanto alla perdita dei ricordi della vecchia vita per ricominciarne una nuova.
L’iscrizione che, infatti, i soldati trovano davanti a sé sbarcando sull’isola, ovvero «E ellas einas o tafos» (La Grecia è la tomba degli italiani) – che molto ricorda il «Lasciate ogni speranza, o voi che entrate» dantesco – risulta un monito per i protagonisti a cominciare ad abbandonare la loro vecchia vita e a intraprendere un viaggio – che più che fisico si configura come viaggio dell’anima – per trovare se stessi.
Per ritrovare se stessi, infatti, i nostri protagonisti devono perdere tutto. All’inizio del film, infatti, la nave alleata, la R.N. Garibaldi, viene distrutta da un attacco aereo, mentre Strazzaboschi, in preda alla rabbia per via dell’uccisione della sua asina Silvana commessa per sbaglio dai suoi commilitoni, scaglia la radio contro il muretto, recidendo, così, ogni contatto con il mondo esterno.
Una frase chiave di questo film è sicuramente «non so», frase ripetuta più volte dal pescatore Aziz. È proprio quest’ultimo che riesce a obliare le vite dei protagonisti: offrendogli «il fumo dell’oblio» (oppio), Aziz stordisce i soldati al punto da riuscire a rubare tutti i loro averi, spogliandoli, così, della loro vita passata.
Dopo aver perso tutto – soprattutto dopo essersi resi conto di esser stati abbandonati dal proprio paese -, i protagonisti si adatteranno alla nuova vita su quella che definiscono «l’isola dell’oblio»: si vestono con abiti locali, imparano a ballare come gli abitanti dell’isola e gli aiutano anche nelle faccende più disparate, come Strazzaboschi che con il suo nuovo asino Garibaldi aiuta una contadina a tornare a casa oppure Montini che restaura l’affresco della chiesa del posto.
La Grecia “utopia” degli italiani
I protagonisti, dopo essersi affezionati alla vita sull’isola, faranno ritorno a casa, in Italia, con la speranza di costruire un paese migliore dopo la fine della guerra. L’Italia, però, si rivelerà essere un’Itaca amara: non un paese pieno di speranza di ricominciare e di prosperità, ma un paese che delude, dove la spensieratezza e il benessere sono sostituiti da ciò che Roberto Escobar definisce «la seriosità degli impegnati, la stupidaggine dei dinamici, il cinismo degli uomini-guida, la volgarità al cinismo».
Alcuni dei protagonisti ritorneranno in Grecia – ora piena di turisti rumorosi e dediti al consumo e al divertimento -, cercando di rifondare l’utopia dei vecchi tempi, scandita dalla lentezza e dalla voglia di evasione. Uno dei personaggi dirà:
Non si viveva poi così bene in Italia. Non ci hanno lasciato cambiare nulla. E allora gli ho detto: avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice.
Questa frase esprime uno sfogo di amarezza della generazione di Gabriele Salvatores, una generazione di persone che di fronte a una realtà cinica e senza valori come l’Italia dello yuppismo, che prometteva benessere e prosperità, ma che in realtà ha promulgato solo arrivismo, sfrenato dinamismo e indifferenza, rispondono con la ricerca dell’utopia di un’evasione dalla realtà fatta di semplicità e lentezza.
«Mediterraneo» è ancora qui
A distanza di quasi trent’anni, Mediterraneo di Gabriele Salvatores continua a essere un film che diverte ma allo stesso tempo commuove. Un film che ci fa scappare dalla frenesia della vita urbana, dal cinismo e dall’indifferenza degli altri, per tornare a quel tempo del mito scandito dalla lentezza e dalla frugalità, e che ci fa tornare alla bellezza dei tempi passati e che ci permette di osservare ancora una volta l’immensità del mare della Grecia, che come le acque del Lete ci fa dimenticare la nostra solitudine all’interno di una società sempre più egoista e cinica e senza più punti di riferimento.
«Una vita è troppo poco. Una vita sola non mi basta. Se conti bene non sono neanche tanti giorni. Troppe cose da fare, troppe idee. Sai che ogni volta che vedo un tramonto mi girano i coglioni? Perché penso che è passato un altro giorno. Dopo mi commuovo, perché penso che sono solo, un puntino nell’universo. I tramonti, mi piacerebbe vederli con mia madre e con una donna che amo. Invece le notti mi piacerebbe passarle da solo; da solo… magari con una bella troia, che è meglio che da solo».
Diego Abatantuono in Mediterraneo
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