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Il regista Michael Moore ha rivoluzionato l'idea di documentario

Michael Moore, 70 anni di lotta non-stop

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18 minuti di lettura

Evocare l’idea di documentario può produrre due effetti: c’è chi immaginerà un servizio “alla Superquark” e chi invece penserà a reportage di guerra, investigativi o di altra natura. In generale però, il medium documentaristico non è mai stato associato alla cultura pop, piuttosto è sempre stato concepito come qualcosa di polveroso per natura, in quanto slegato dalla fiction.

Ebbene l’idea di documentario è stata rivoluzionata per sempre nel 2002, quando Michael Moore regalò al mondo Bowling a Columbine, un film ironico, spietato, accattivante e d’inchiesta. Il suo stile di montaggio e di narrazione viene ancora oggi ripreso da autori di qualsiasi tipo: Food for Profit (2024) di Giulia Innocenzi è solo uno degli ultimi esempi della pervasività del lavoro di Moore. Ma il suo cinema è davvero scevro di qualsiasi influenza stilistica o contenutistica “di finzione”?

Michael Moore, nato a Flint, Michigan

Per festeggiare i suoi 70 anni, compiuti questo aprile, bisogna innanzitutto partire dalle origini del regista statunitense: la sua beneamata Flint, situata vicino al confine canadese del Michigan, non è solo stata la casa dell’infanzia e dell’adolescenza di Michael Moore, è anche protagonista di numerosi suoi documentari.

La città, dapprima famosa per aver ospitato la GM (General Motors), nota azienda produttrice di automobili, è diventata nel tempo associata ad una serie di soprusi sociali ai quali i suoi abitanti sono stati sottoposti: il primo e più devastante colpo al welfare cittadino fu la chiusura di diverse strutture della GM negli anni ’80, che lasciò disoccupati più di 30.000 lavoratori. A seguito della questione, nessuno della municipalità, dello stato o della capitale si è occupato di Flint, abbandonando la cittadina al suo destino di degrado, criminalità e corruzione.

Ancora più recentemente – tra il 2014 e il 2019 – la città è stata colpita da una gravissima crisi sanitaria dovuta alla speculazione del governatore Rick Snyder nei confronti della rete idrica della zona, contaminata da piombo e quindi altamente velenosa: la situazione fu gestita con tale disinteresse dal gabinetto statale che fu necessario l’intervento diretto del presidente Barack Obama per quietare gli animi e riportare Flint alla sua già in precedenza scarsa vivibilità. Michael Moore ha raccontato tutte queste storie in numerosi dei suoi film, partendo dalla sua città natale per universalizzare poi il discorso, al fine di inquadrare i problemi e le ingiustizie di tutta l’America.

Perché, alla fine, stiamo parlando di un regista fortemente politicizzato, schierato in maniera assoluta contro la sua madrepatria in quanto profondamente patriottico, e quindi disposto a riconoscerne tutti i difetti. Michael Moore si è infatti occupato delle tematiche più disparate: dalle politiche estere statunitensi fino all’aggressiva privatizzazione del settore sanitario, raccontando le sue storie sempre con molta ironia e letteralmente mettendoci la faccia; Moore è protagonista di tutti i suoi film e ciò non va sottovalutato ai fini di questa discussione. Tutto quello che la sua camera riprende va considerato non come pura oggettività, ma come teorie politiche del regista, spesso estremamente condivisibili, ma comunque soggettive.

Fatta questa premessa, passiamo ora a parlare nello specifico di quattro dei migliori film diretti da Michael Moore, che vi coinvolgeranno come pochi altri documentari sanno fare.

Roger & Me (1989)

Michael Moore nel documentario Roger & Me

La carriera di Michael Moore inizia proprio con un film dedicato interamente a Flint nel periodo della crisi sociale: gli interessi economici del presidente della GM Roger Smith spinsero l’azienda a chiudere numerosi stabilimenti, condannando l’intera cittadina ad un disastroso effetto domino di disoccupazione, sfratti ed emigrazione. Michael Moore spende l’intero film cercando di contattare Roger per passare assieme un giorno nelle strade di Flint.

L’approccio di Michael Moore è da subito affascinante: il film, documentario sociale, inizia con la voce narrante del regista che commenta i suoi ricordi d’infanzia felice trascorsa in Michigan e della sua infatuazione per il mito del sogno americano. La scelta di aprire un documentario del genere con questo taglio così intimo e personale era rara all’epoca e continua ad esserlo ora: è normale prerogativa del documentarista, specialmente se coinvolto nel raccontare la storia di qualcun altro, cercare di eclissarsi il più possibile nel prodotto finito. Eppure il tono scanzonato e privato di Moore nel trattare una vicenda così tragica è ciò che, anche all’uscita, mise immediatamente Roger & Me sul radar della critica statunitense e di buona parte del pubblico.

Partendo dalla mitologia americana di lustrini e cultura “bassa” (parate, mini-celebrità locali, programmi televisivi), Michael Moore rende ancora più sconvolgente la crudezza e l’ipocrisia con cui i suoi stessi miti – Mrs. America, attori, cantanti originari di Flint – rifiutano di prendere posizione a favore degli ex-operai della GM o provano a vendere l’illusione che in città vada tutto bene.

Sono scioccanti alcune delle sequenze catturate da Michael Moore ed il suo team proprio in merito alla percezione delle classi più abbienti rispetto a quelle svantaggiate: da un party in stile Grande Gatsby tenuto dalla borghesia di Flint con tanto di operai così disperati da vendersi come manichini umani durante il gala, fino ad una donna che pur di sopravvivere comincia a vendere conigli sia da compagnia che da cucinare.

Di tutti i film del regista, Roger & Me è di sicuro uno dei più amari: l’inseguimento di Roger non riesce a scalfire la realtà degli orrori che chi abita a Flint ha dovuto conoscere negli ultimi ’40 anni.

Bowling a Columbine (2002)

Michael Moore in Bowling a Columbine, dove indaga sul primo school-shooting della storia americana

Quinto film di Michael Moore – dopo il debutto vi sono stati un sequel intitolato Pets or Meat: The Return to Flint (1992), l’unico film di finzione del regista Operazione Canadian Bacon (1995) e il doc The Big One (1997) – Bowling a Columbine è il punto di svolta: vincitore del premio Oscar come Miglior Documentario, è il film che ha valso al suo regista una notorietà internazionale ed il primo vero successo di botteghino.

Il film indaga i motivi, culturali e personali, che portarono due adolescenti a commettere il primo efferato school-shooting della storia americana nel 1999 alla Columbine High School. Discutendo del commercio di armi senza restrizioni di alcun tipo, del regime di paura a cui i media americani hanno abituato i cittadini, fino all’abbandono di certi ceti sociali da parte delle istituzioni, Michael Moore intervista le personalità più disparate: Charles Manson, ritenuto dai media indiretto responsabile del massacro in quanto artista satanico e violento, compare nel film come la celebrità più equilibrata e simpatetica sia nei confronti delle vittime che dei carnefici.

L’altro grande nome inchiodato da Moore è Charlton Heston, protagonista di Ben-Hur (1959) e de Il Pianeta delle Scimmie (1968), reinventatosi in tarda età Presidente della National Rifle Association, ovvero la più proficua e influente lobby di vendita delle armi negli Stati Uniti. Proprio come fu per Roger Smith nel suo primo film, Michael insegue Heston e la NRA cercando di estorcere loro spiegazioni sul perché due adolescenti avessero libero accesso ad armamenti militari.

Senza rivelare nulla di troppo, è facile capire perché un film del genere abbia ricevuto tutta l’attenzione del caso: il ritmo espositivo con cui Moore opera, lanciando continuamente nuove informazioni e nuovi stimoli allo spettatore, mostra sempre qualcosa di interessante a schermo. Nuovi personaggi deliranti, nuove animazioni, nuove musiche, fanno sì che, nonostante la tematica veramente agghiacciante, il film scivoli via in maniera estremamente piacevole: la più importante cifra stilistica di Michael Moore sta nel sapere sempre bilanciare l’umorismo con la genuina drammaticità dei temi trattati.

Eppure Bowling a Columbine comincia anche a mostrare le criticità a cui si accennava sopra: se è vero che Moore riesce a intrattenere con cose che normalmente sarebbero mortificanti, è anche vero che concetti complessi come la gun culture statunitense o l’irrisolto odio razziale vengono semplificati in maniera decisamente eccessiva.

Da aggiungersi a questo, il fatto che Michael Moore diriga essenzialmente un documentario “a tesi pregressa”, ovvero non tanto un’effettiva indagine, quanto un esercizio visivo che confermi le teorie preesistenti del regista. Moore tende a omettere il contraddittorio e a filmare i suoi soggetti in maniera decisamente denigratoria quando in evidente disaccordo con lui: Heston è il cattivo del film e il regista non accetta repliche a riguardo, una tendenza che si aggraverà ancora di più nel suo successivo progetto.

Fahrenheit 9/11 (2004)

Michael Moore nel documentario del 2004 Fahrenheit 9/11

Alla cerimonia degli Oscar 2002, una volta chiamato sul palco per accettare il suo premio per Bowling a Columbine, Michael Moore disse: “We like non-fiction, and we are living in fictitious times, in which we have fictitious elections results. We have a fictitious president, sending us to war for fictitious reasons.” Svelava così il soggetto del suo nuovo documentario Fahrenheit 9/11, ovvero i fallimenti dell’amministrazione Bush e le atrocità commesse dagli Stati Uniti in Iraq in risposta all’attacco alle Torri Gemelle dell’undici settembre 2001.

Ora, se il precedente film aveva oggettivi meriti tecnici e artistici, oltre alla capacità di declinare il presente in maniera originale, questo nuovo progetto pecca soprattutto di equilibrio: George W. Bush è un mostro e per Michael Moore è così naturale che chiunque la pensi allo stesso modo che non si sofferma nemmeno a spiegare i motivi di questo astio.

Sia ben chiaro, Bush è un mostro, ma questo ci è dato saperlo grazie alle centinaia di documenti e approfondite indagini che sono state svolte sul suo operato, mentre Moore si accontenta di vilificarlo per partito preso. In più pare anche che Moore scada nell’ammiccare a un paio di teorie del complotto che implicherebbero gli Stati Uniti stessi nell’attentato del 2001, senza però mai esporre esplicitamente queste idee.

I reali meriti del documentario stanno nell’aver scosso l’opinione pubblica americana: uscito nel 2004, fu uno dei primi prodotti a mostrare su larga scala le sanguinarie immagini provenienti dall’Iraq. La sua importanza sta più nel mero esistere in quanto documento storico che nell’arricchire di informazioni chi sia già un minimo informato riguardo gli eventi. L’impatto sul pubblico fu devastante: più di 220 milioni di dollari al botteghino internazionale per il documentario più contestato e più proficuo della storia del cinema.

Fahrenheit 11/9 (2018)

Il documenario Fahrenheit 11/9 di Michael Moore critica l'amministrazione di Donald Trump

“How did we get here, and how the f#ck do we get out?” è la punchline d’apertura dell’ultimo film regalatoci da Michael Moore fino ad ora. Seguendo la disastrosa vittoria di Hillary Clinton alle primarie Democratiche – contro il quotatissimo Bernie Sanders – e la sua successiva sconfitta contro il magnate Donald Trump, Moore delinea il suo film più complesso: dopo anni di alti e bassi, tra film affascinanti come Sicko (2007) e meno ispirati come Michael Moore in Trumpland (2016), qui il regista ritrova appieno la sua voce abrasiva.

Fahrenheit 11/9 è un insieme di tutto ciò di cui Moore si sia mai occupato: ammiccando alla data dell’elezione di Trump – 9 novembre 2016 – e al titolo del suo vecchio film, Michael Moore critica l’amministrazione del tycoon, raccontando una serie di storie di resistenza e fratellanza all’interno degli Stati Uniti contro le scellerate politiche repubblicane. Lo fa tornando alla sua amata Flint per riflettere sulla profonda crisi del Partito Democratico, prendendo come esempio l’arrivo di Obama nella cittadina durante la crisi sanitaria per calmare le acque senza effettivamente risolvere i problemi a monte. Lo fa riflettendo sulla classe dirigente vetusta che gestisce il partito ignorando i giovani. Lo fa interrogandosi su cosa ne sarà dell’America.

Con la sua feroce ironia ed il suo stile narrativo serrato, Fahrenheit 11/9 è certamente uno dei lavori migliori di Moore, che mette da parte il suo protagonismo per far parlare direttamente gli abitanti di Flint, gli elettori Democratici, i sostenitori di Bernie e tutto quel mondo che in America non vive, ma piuttosto sopravvive.

What next?

Di fatto Michael Moore è stato uno degli autori più importanti degli ultimi 40 anni: il suo modo di fare cinema ha influenzato la concezione stessa di documentario e ha dimostrato che è possibile fare incassi astronomici anche con prodotti che mai si sarebbero pensati adatti ad una distribuzione su larga scala.

Le critiche che sono state volte al suo lavoro non dissuadano nessuno dal cercare i suoi film, tutti facilmente reperibili online, e vederli: servono piuttosto a fornire uno strumento ulteriore allo spettatore per decifrare il lavoro di Michael Moore senza prendere per fattualmente reale tutto ciò che esce dalla sua bocca. Del resto, il suo lavoro non è mai stato quello di raccontare con esattezza: si tratta piuttosto di reggere uno specchio davanti alla società americana e commentarne l’immagine riflessa. La potenza nei film di Moore sta proprio nel voler ottenere reazioni da parte del suo pubblico, che esse siano fare fact-checking o saltare in piedi dal proprio divano e rimboccarsi le maniche in prima persona.

Che a convincerli siano state le lacrime dei bambini di Flint, l’indignazione per le bugie del NRA, la brutalità della guerra in Iraq o l’arroganza di Trump, tutto ciò che Michael Moore vuole ottenere dai suoi spettatori è che si attivino in modo concreto. Questo è cinema d’azione politica: il documentarista britannico John Grierson teorizzava la “propaganda della democrazia”. Ecco, con un’accezione della formula diversa, anche Moore dirige “propaganda della democrazia”. Ed è assurdo pensare che lui stesso possa stare fermo nonostante i suoi 70 anni: dopo l’assalto di Capitol Hill, la disastrosa amministrazione Biden e le imminenti elezioni del 2024, Michael non vorrà sottrarsi dal raccontare ancora una volta il paese che odia/ama più al mondo.


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Appassionato e studioso di cinema fin dalla tenera età, combatto ogni giorno cercando di fare divulgazione cinematografica scrivendo, postando e parlando di film ad ogni occasione. Andare al cinema è un'esperienza religiosa: non solo perché credere che suoni e colori in rapida successione possano cambiare il mondo è un atto di pura fede, ma anche perché di fronte ai film siamo tutti uguali. Nel buio di una stanza di proiezione siamo solo silhouette che ridono e piangono all'unisono. E credo che questo sia bellissimo.

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