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Michelangelo Antonioni, l’audacia silente di servirsi del cinema

Per i centodieci anni dalla sua nascita riscopriamo uno dei maestri del cinema italiano

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11 minuti di lettura

È il 1995 e in un teatro gremito Michelangelo Antonioni sta per ricevere dalle mani di Jack Nicholson il premio Oscar alla carriera. A parlare davanti al pubblico è però la moglie Enrica Fico, che al posto suo ringrazia per il riconoscimento e per tutto l’amore ricevuto, perché per un uomo come Antonioni le parole spesso sono superflue e le emozioni si possono vivere anche restando in silenzio e semplicemente godendosi quegli applausi così rumorosi e meritati. L’unica parola che pronuncerà su quel palco sarà un grazie detto timidamente, non serve altro perché dell’altro sarebbe ridondante, ricorsivo e ripetitivo rispetto a quello che ha ideato, scritto e diretto in cinquant’anni di carriera.

Michelangelo Antonioni non ha mai parlato molto, alle interviste e alle apparizioni ha sempre preferito comunicare con i propri film, esprimersi dietro la macchina da presa e dando importanza anche al concetto di silenzio e assenza. Principi esistenziali che ha traslato dalla propria persona alla propria idea di cinema, decisione che lo ha reso un artista immortale, capace di creare e distruggere a suo piacimento l’arte cinematografica, diventando così uno dei pochi demiurghi del cinema italiano, capace con solo due mani di cambiarlo e innovarlo profondamente.

MUBI per i centodieci anni che ricorrono dalla nascita del regista ripropone tre suoi film per poterlo riscoprire o conoscere per la prima volta, tre film (La signora senza camelie, Il grido La notte) collocati nel periodo antecedente al colore e al successo internazionale arrivato con Blow-Up che però disegnano il viaggio perfetto per conoscere il percorso di Antonioni verso la sua personale e inedita idea di cinema.

Dalla critica sociale al confronto con il proprio io

Michelangelo Antonioni

Dopo essere stata una figura sotterranea del neorealismo italiano scrivendo sceneggiature per i grandi registi del tempo e girando documentari e cortometraggi con le specifiche regole appartenenti a quella idea di cinema, Michelangelo Antonioni già dai suoi primi lungometraggi è interessato ad altro, la direzione che vuole imprimere ai suoi lavori prevede i temi del neorealismo circostanziati a semplice cornice e porre l’attenzione sul rapporto che l’essere umano interpone con se stesso e con gli altri. L’intento non è più catturare la realtà ma esplorare qualcosa di più irraggiungibile e ineffabile. 

La signora Senza Camelie, il suo secondo lungometraggio uscito senza troppo rumore e scalpore nel 1953, è il perfetto ponte di questo cambiamento di prospettiva perché si pone al centro tra la classica critica sociale e l’inesplorata analisi antropologica che approfondirà fino al suo ultimo film.

Una storia che entra nell’ambiente dell’industria cinematografica, nei suoi metodi e sistemi così avidi e sfaccettati, e la esplora tramite la parabola di Clara, un’umile commessa milanese diventata una star del cinema che deve affrontare la spietatezza di un mondo spesso cannibale e scontrarsi con logiche crudeli. Antonioni ha avuto il coraggio di far emergere le criticità di un ambiente in piena ascesa e in una delle sue fasi più rosee, espone una feroce e spietata denuncia a un mondo troppo spesso pericoloso e opprimente, esplora l’inumanità e l’avidità dell’essere umano tramite i meccanismi sconcertanti che attua per raggiungere il proprio volere. 

L’innocenza e la forza vitale di Clara viene lentamente spenta e assopita dal marito produttore, che dopo il matrimonio inizia a possederla e sfruttarla come se fosse un oggetto, a decidere per lei cosa può fare e cosa non può fare e Clara dovrà scontrarsi con la propria persona per trovare la forza per tentare di uscire da quella realtà che vuole solo sfruttarla e che reputa il denaro sempre più importante dell’arte. La Signora senza Camelie è un film poco visto e poco considerato, ma è il primo passo del regista ferrarese per raggiungere una maturazione che lo porterà a scrivere e dirigere i suoi capolavori.

L’importanza del silenzio e dell’assenza

Michelangelo Antonioni

Se La Signora senza Camelie è stato un tramite, un passaggio ancora giovane e acerbo nel percorso artistico di Michelangelo Antonioni, Il Grido e soprattutto La Notte sono due tasselli che gli permettono di raggiungere l’apice della sua poetica.

Spoglia i due film quasi completamente di ogni sovrastruttura esterna, il contesto e il rapporto con la società diventano lo sfondo per permettere alla camera di concentrarsi sul particolare, sulle piccolezze impercettibili che solo l’immagine e la parola riescono a trattenere. Il Grido è il viaggio di un uomo che, lasciato inaspettatamente dalla compagna, tenta di placare un dolore tremendo e improvviso scappando con la figlia il più lontano possibile. 

Una fuga dalla pena, un percorso alla ricerca della serenità e di un altro amore con cui riempire il vuoto che sente, tenterà di rifugiarsi nelle braccia di una vecchia fiamma ancora innamorata di lui, nell’amore cristallino di un umile benzinaia e nella folgorante bellezza di una giovane prostituta, ma scappare dal dolore senza mai esorcizzarlo e affrontarlo non fa altro che renderlo più tormentato e solo tornare nel luogo dove tutto si è spezzato potrà forse sistemare quello che si è rotto. Con un bianco e nero sempre più spoglio, solitario e lontano dalla cittàIl Grido è un continuo vagabondare tra i concetti di lontananza, paura e rimorso alla disperata ricerca di riempire un’assenza diventata troppo dolorosa. 

La Notte è ancora un’idea più estremizzata, un film senza una struttura che si regge completamente sul battito cardiaco di un rapporto arrivato alla sua fine , sul legame sempre più sopito e vuoto tra uno scrittore insicuro (un immenso Marcello Mastroianni) e la moglie sempre più lontana da lui. Antonioni ci fa entrare per un giorno intero nella quotidianità di una coppia cullata da un pesante silenzio e una lontananza emotiva che li ha da tempo trasformati in sonnambuli.

 La Notte è un flusso senza regole, la danza di due cariche uguali che continuano a schivarsi e allontanarsi, solo una notte di perdizione in una villa borghese (soprattutto l’entrata in scena di una magnifica Monica Vitti) fuori da quella routine così opprimente riuscirà a svegliarli e smuoverli verso un confronto forse troppo tardivo.

Un percorso tanto silente e poco narrativo per arrivare a un finale che per costruzione ed enfasi raggiunge la perfezione della poetica antoniana, le conseguenze di un’incomunicabilità distruttiva e lacerante, l’essere umano travolto da un silenzio che lo chiude verso l’altro e verso sé stesso e il continuo tentativo futile di celarsi dietro una maschera, dietro il proprio ruolo, dietro le proprie frivole convinzioni che non fanno altro che restare su quel confine poco chiaro che Antonioni segna tra i vivi e i morti.

L’eredità e l’importanza di Michelangelo Antonioni

Michelangelo Antonioni

Ciò che rende Michelangelo Antonioni uno dei maestri della storia del cinema è aver avuto l’audacia di non accontentarsi dell’apparenza, di non limitarsi a guardare e descrivere la realtà e di cambiare prospettiva per indagare, sbaragliare e scandagliare il mondo che si nasconde nell’essere umano. Spostare l’attenzione e lo sguardo dal contrasto tra l’uomo e il suo contesto in cui è immerso a come l’uomo vive quel rapporto è un piccolo cambio di direzione che ha dato vita a un altro modo di fare cinema. Al centro inizia a esserci tutto quello che prima era marginale, il silenzio e l’assenza diventano protagonisti in film che non hanno nulla di commerciale, un cinema che diventa strumento di analisi, che sottrae e toglie per staccarsi dalla bramosia di raccontare la verità e accettare la finzione per arrivare dove pochi sono arrivati. 

Michelangelo Antonioni resta scolpito nella storia perché ha avuto il coraggio di distruggere, di cambiare, di credere nel cambiamento, di essere il padre cinematografico di temi come il disagio esistenziale, l’alienazione, la frammentarietà del proprio io e l’incapacità di comunicare che ancora oggi e per sempre saranno al centro della discussione filmica perché riguardano tutti, non hanno intrinsecamente confini e limiti, perché sarà impossibile smettere di guardare dentro l’essere umano e non trovare qualcosa da raccontare.


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Il cinema e la letteratura sono gli unici fili su cui riesco a stare in equilibrio. I film di Malick, Wong Kar Wai, Jia Zhangke e Tarkovskij mi hanno lasciato dentro qualcosa che difficilmente riesco ad esprimere, Lost è la serie che mi ha cambiato la vita, il cinema orientale mi ha aperto gli occhi e mostrato l’esistenza di altre prospettive con cui interpretare la realtà. David Foster Wallace, Eco, Zafón, Cortázar e Dostoevskij mi hanno fatto capire come la scrittura sia il perfetto strumento per raccontare e trasmettere ciò che si ha dentro.

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