Il 2022 è stato un anno particolarmente importante per MUBI. L’acquisizione, in gennaio, della società di produzione europea The Match Factory è stato un passo fondamentale per avvicinare la piattaforma al sogno del fondatore, Efe Çakarel, di renderla una compagnia alla pari dei più importanti studi hollywoodiani. Il catalogo permanente di MUBI, introdotto solo un paio d’anni fa e colmo di proposte interessanti, si è intanto arricchito di nuovi, prestigiosi titoli in esclusiva, dall’intera serie The Kingdom di Lars von Trier a Decision to Leave di Park Chan-wook (entrambi, al momento, non disponibili in Italia).
Il possibile futuro gigante del panorama cinematografico mondiale sembra insomma inarrestabile e anche quest’anno ci ha deliziati con una notevole selezione di chicche d’autore. Vediamo, allora, le 10 migliori uscite distribuite in esclusiva da MUBI in Italia nel 2022.
Vortex, di Gaspar Noé
Trama: Un’anziana coppia parigina vive un momento di profonda crisi quando i sintomi della demenza di lei si fanno sempre più persistenti e pericolosi.
Da sempre appassionato ed eccentrico sperimentatore, con Vortex Gaspar Noé si è lanciato in un’operazione più sobria delle precedenti ma non per questo meno impattante. Il film, presentato a Cannes nel 2021, è nato da un’esperienza vicina alla morte vissuta dal regista ed è forse per questo più delicato e meditativo del solito.
Lo stile di Noé resta riconoscibile e i primi dieci minuti sono inconfondibilmente suoi per iconicità; a completare il quadro, le grandi interpretazioni di Dario Argento e Françoise Lebrun. Poteva, sì, durare meno, ma l’uso dello split screen è talmente magistrale nel delineare il rapporto tra i due protagonisti e costruire significati da rendere Vortex una perla nella filmografia di Noé e nel catalogo MUBI.
Petite Maman, di Céline Sciamma
Trama: Mentre aiuta i suoi genitori a sistemare la casa della nonna appena scomparsa, Nelly, una bambina di otto anni, esplora i boschi circostanti e fa amicizia con una coetanea che sta costruendo una casa su un albero.
Con Ritratto della Giovane in Fiamme, il cinema di Céline Sciamma ha subito un’evoluzione radicale. Colori caldi, accesi, vibranti, perfettamente distribuiti in inquadrature studiate nei minimi dettagli e di una potenza da togliere il fiato. Petite Maman conferma questo nuovo trend con la sua palette estremamente simile e appagante e col ritorno della tematica dell’abbandono, seppur declinata in maniera differente. Ma qui terminano le analogie, perché Petite Maman ha anche vita propria, che risiede nella sua carica emotiva: fa ridere (molto) e fa piangere (molto); scalda il cuore grazie alla sceneggiatura che, senza sbavature, arriva dritta al punto e all’anima in soli 70 minuti.
Un film imperdibile che riconferma, ancora una volta, il talento della regista francese.
Memoria, di Apichatpong Weerasethakul
Trama: Jessica, in visita della sorella malata a Bogotà, inizia a sentire uno strano e persistente rumore che la porta a compiere un incredibile viaggio per scoprirne la provenienza.
Come gli altri film di Weerasethakul, Memoria è un’esperienza totale. La sua potenza sta (volutamente) più nelle sensazioni che mostra e suscita, amplificate da un comparto sonoro che riesce ad arrivare fin dentro le viscere, che nella trama.
Servendosi di lunghissimi silenzi contemplativi e paesaggi mozzafiato, ormai marchi di fabbrica della sua produzione, il regista thailandese scava nelle radici dell’umanità e, per l’appunto, della memoria con un piglio inusuale, costruendo un’opera criptica che riempie la mente e lo spirito. Un viaggio esistenziale ipnotico e travolgente, in compagnia della sempre bravissima Tilda Swinton. Impossibile da spiegare, assolutamente da recuperare.
Parigi, 13 Arr., di Jacques Audiard
Trama: Émilie ha un’amante, Camille, che a sua volta ha un’altra amante, Nora, che diventa amica di Amber. Quattro destini incrociati si ritrovano all’interno di una Parigi in bianco e nero dimenticata e ai margini.
Siamo a Parigi, XIII arrondissement, ovvero uno dei quartieri più periferici della capitale francese, sede della Chinatown parigina. Visto il contesto di Parigi 13 Arr., non è così scontato che Jacques Audiard sia riuscito a raccontare la zona tramite un’ottima love-story multietnica. Tre ragazze, un ragazzo: un prisma tridimensionale (al cui interno troviamo l’ottima Noémie Merlant) prima grottesco e poi romanticissimo.
Sembra l’Estate di Rohmer, ma con Audiard governa tutta l’incertezza e lo spaesamento della condizione dei giovani (tutti, nessuno escluso: bianchi, neri, arcobaleno); un’intera popolazione lasciata letteralmente a sé stessa che il noto regista francese sfrutta come cartina tornasole per raccontare il disastro sociale europeo. Eppure, c’è chi dice che è solo sesso.
The Humans, di Stephen Karam
Trama: La famiglia Blake si ritrova a New York per la consueta cena del Ringraziamento. Ma man mano che la cena va avanti, iniziano a saltare fuori tutte le crepe e le insicurezze celate all’interno della famiglia.
Richard Jenkins, Jayne Houdyshell, Amy Schumer, Beanie Feldstein, Steven Yeun e June Squibb sono la famiglia Blake, alias Gli Umani. Opera teatrale vincitrice di un Tony Award, MUBI ne distribuisce una trasposizione sempre adattata dal suo regista, Stephen Karam, qui alla sua opera prima.
In una casa nuova ma marcia, ammuffita e sconosciuta, la famiglia Blake è arrivata al capolinea: menzogne, insidie, odio danno vita al gioco dell’incoerenza. Discorsi goliardici lasciano il posto a ferite aperte, risate isteriche generano incomprensioni inattese: è il dramma di una famiglia qualsiasi o un modo per farci ragionare sul suo significato archetipico? D’altronde, i parenti non te li scegli. E meno male che Pasqua è con chi vuoi.
Lamb, di Valdimar Jóhannsson
Trama: Una coppia di allevatori islandesi non riesce ad avere figli propri. La speranza sembra riaffiorare quando una delle loro pecore dà alla luce un agnellino metà animale e metà bambino: una benedizione o una maledizione?
Di Valdimar Jóhannsson, molto probabilmente, si sentirà parlare nei prossimi anni. Nel frattempo, ci piace crogiolarci nella sua opera prima, Lamb: un frutto proibito intrigante che coinvolge l’attrice Noomi Rapace, il poeta Sjón e alla produzione Béla Tarr. Il risultato è un dramma umano ed ecologista instillato nell’architrave mitologica per eccellenza, quella più cool del ventunesimo secolo: la mitologia norrena e islandese.
Una tragedia pastorale che gioca bene le sue carte, e in cui la metafora green è insita nell’egoismo umano, demolitore del decorso naturale delle cose e sbeffeggiatore delle divinità. Ma dietro ciò non si nasconde nessuna multinazionale profittatrice, nessuna nazione tirannica e nessuna corporazione militante strafottente: solo la disperazione narcisistica di una madre che non ha mai potuto conoscere suo figlio.
What Do We See When We Look at the Sky?, di Alexandre Koberidze
Trama: Quando la farmacista Lisa e la calciatrice Giorgi si risvegliano, tutto è cambiato. Siamo nella città georgiana di Kutaisi, e nell’aria vibra un romanticismo estivo.
Con il suo secondo lungometraggio, Alexandre Koberidze si conferma uno degli emergenti più talentuosi e sperimentali del panorama cinematografico indipendente. Il regista georgiano, classe ’84, costruisce un film prolisso e dilatato, dove la surreale storia d’amore tra Giorgi e Lisa, che da un giorno all’altro cambiano aspetto e non riescono più a riconoscersi, si alterna alla voce dello stesso Koberidze che riflette su ciò che filma e sulla sua idea di cinema.
Zoom e piani sequenza infiniti, manierismi registici e immagini folgoranti rendono What Do We See When We Look at the Sky? un esperimento folle, una pellicola che distrugge ogni schema narrativo e visivo.
This Much I Know To Be True, di Andrew Dominik
Trama: Girato tra Londra e Brighton, il documentario mostra i momenti sul set delle registrazioni del musicista Nick Cave.
Andrew Dominik, che con Blonde ha raggiunto la fama mondiale, finalmente ci regala il secondo tempo del film-documentario sul musicista Nick Cave. Se con One More Time with Feeling (2016) il regista aveva esplorato uno dei momenti più dolorosi della vita di Cave e la successiva catarsi con il disco Skeleton Tree, con This Much I Know To Be True emerge la ricerca del musicista australiano verso il vero significato della vita con la realizzazione dell’album Ghosteen e la collaborazione con Warren Ellis.
Un film che diventa esperienza sensoriale, dove la musica e le parole si uniscono per dar vita a un simposio indimenticabile.
Il Gioco del Destino e della Fantasia, di Ryūsuke Hamaguchi
Trama: Tre storie distinte ci muovono tra un triangolo amoroso, una seduzione fallita e un grande malinteso. La distanza tra i racconti è però solo apparente, perché un filo rosso li attraversa.
Ryūsuke Hamaguchi è riuscito, nell’anno in cui ha girato il capolavoro Drive my Car, a scrivere e dirigere anche un altro film sperimentale, Il Gioco del Destino e della Fantasia. Il lungometraggio a episodi, vincitore dell’Orso d’Argento al 71° Festival di Berlino, si suddivide in tre storie distinte che indagano con il solito tocco elegante e chirurgico del regista di Asako I & II l’amore e i legami affettivi in una società orientale sempre più spaccata e colma di contraddizioni che allontanano le possibilità di legarsi all’altro.
Due amiche legate dallo stesso amore, lo scontro studente-professore e un’amicizia dimenticata che si mescolano in un film imprescindibile per conoscere le crepe e le peculiarità dell’Oriente.
Cow, di Andrea Arnold
Trama: La vita di tutti i giorni e, soprattutto, la grande sofferenza di una mucca da latte in un allevamento.
Cow è un film di prospettiva. Non però quella di un essere umano, ma della mucca Luma. Il documentario di Andrea Arnold ci catapulta nella quotidianità di una mucca del Kent e nella sua routine di allevamento, dove sfruttamento e imposizioni sono fattori costanti e martellanti.
Cow è un’esperienza sporca, sudicia, fatta di odori che si riescono a percepire e dolori che attraversano lo schermo, ma la regista non impone nessuna morale, nessun pietismo o vittimismo. con la sua telecamera a mano ci accompagna dentro una prospettiva poco indagata e disegna il punto in cui siamo arrivati, la strada che l’essere umano ha scelto di intraprendere.
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