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Monica Vitti

Monica Vitti, tutti i colori di un’anti-diva

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Quanto spaventa il silenzio. Il convivere con gli incubi, fare i conti con le inquietudini. Lo mostra bene la parabola di Monica Vitti, ‘anti-diva’ per sempre giovane: biondissima, bellissima, inchiodata allo splendore di quegli occhi festosi, al sorriso ruggente dei suoi anni caldi. Da tempo era fuori-scena, prigioniera di una malattia degenerativa di cui colse le tracce (“A un certo punto della vita a mia insaputa, devo aver deciso di dimenticare. Non dimenticare i dolori o gli errori, ma dimenticare fatti, persone, forse solo confondere tutto”), vera legge del contrappasso per chi visse d’arte, di humor, della prismatica attitudine a mordere il successo.

‘La Vitti’, al secolo Maria Luisa Ceciarelli, è stata tante cose. Timida e fragile, determinata e volitiva. Un fiume in piena, prosciugato dal decrescendo della sua verve, della suplesse dialogica che le aveva permesso di planare sulle cose, di trasformare i ruoli in persone, tra l’incomunicabile alienazione e il riso amaro della commedia. Difficile fare i conti con il silenzio, sopportare l’oscurità di una vita ovattata, scivolata inesorabilmente dalle fanfare alla quiete, in uno stato di sospensione così lontano dal mondo d’oggi.

Il silenzio come sovversione

In un’epoca in cui tutto è spettacolarizzazione, persino la malattia, l’uscita di scena diviene un atto di sovversione, l’ennesimo svelamento di un essere altro, un corpo e una mente legati inscindibilmente. Il pensiero corre a Lelio Luttazzi, a quella puntata di Studio Uno del febbraio 1966, quando Monica Vitti in abito nero improvvisa uno shake sulle note di Nessuno mi può giudicare.

“Ma come, tu mi cominci facendo l’attrice comica, mi continui facendo l’impegnata dell’incomunicabilità, mi continui ancora facendo la Monroe in teatro, se così posso esprimermi, mi finisci per fare 007. Monica mia, tu devi dirmi: chi sei?

Un volto e tante anime, anzi: mille sfaccettature dell’infelicità. Bella era bella, e ridanciana, ma dentro aveva un cuore in subbuglio, un’ossessione per l’immagine che era figlia dell’insicurezza, di un’infanzia vissuta all’ombra della malinconia, nella convinzione che la famiglia fosse una gabbia penosa, un concentrato di regole e impedimenti mortiferi. La sua, cordialmente borghese, le sconsigliava di tentare l’arte, ma lei era già oltre, libera e ribelle, e nel 1953 si diploma all’Accademia, recita Machiavelli, Shakespeare, Brecht.

Monica, soggetto imprevisto

È Sergio Tofano, suo insegnante di teatro, a suggerirle il nom de scène che la renderà unica, con quella sensualità impressa nell’antroponimo (quasi nessuna si chiamava Monica, al tempo), la stessa che vibrava nella voce roca, riconoscibilissima, da alcuni bollata come inadatta al mestiere. Eppure nessuna era più adeguata, con quella femminilità raffinata e rassicurante, capace di sgretolare il dominio maschile (prima donna nell’impero dei ‘colonnelli’ Gassman, Sordi, Tognazzi, Manfredi), di impersonare figure che divengono soggetto.

L’incomunicabilità di Michelangelo Antonioni – conosciuto grazie all’arte del doppiaggio, quando era la voce dietro il corpo prorompente di Dorian Gray – Monica Vitti se la porta dentro, come a riassumere un disagio bruciante, che fluirà in rivoli inquieti, ora venati di tristezza ora già tesi a una sorta di autocoscienza. La trilogia del Maestro, per anni suo compagno di vita, si compone di film dai titoli rivelatori (L’avventura, 1960; La notte, 1961; L’eclisse, 1962) e disegna su di lei un ideale specifico, un’immagine di donna alienata e complessa, che ama Ferzetti, Mastroianni e Delon con la stessa, drammatica indolenza. Anche la distopia del Deserto rosso (1964) ne incornicia i tratti sofferti, propri di chi non si trova a suo agio nella modernità (“C’è qualcosa di terribile nella realtà, e io non so cos’è. Nessuno me lo dice”) e reagisce con l’insoddisfazione e l’isolamento, con il peso gravoso di una diversa sensibilità.

La nuova femminilità di Monica Vitti

Quando Monica Vitti gira La ragazza con la pistola di Monicelli (1968) è a un turning point soltanto apparente, essendo pronta – per sua stessa attitudine – a trasferire sullo schermo i cambiamenti di costume, gli enormi stravolgimenti dell’Italia di quel tempo. Mora, scarmigliata, e ancora fulva nella swinging London solcata alla ricerca di colui che “la disonorò” (un ottimo Carlo Giuffé), la sua Assunta Patané fa il verso al Fefé Cefalù di Divorzio all’italiana (Pietro Germi, 1961), opera cardine sul piano dell’immaginario.

È uno snodo epocale, che investe il piano artistico intercettando la società, rendendo Monica Vitti una “vestale moderna” (e già “in minigonna”, come scrive Ugo Salvatore su La Stampa Sera a proposito della sua interpretazione in Modesty Blase di Joseph Losey, 1966), portavoce di una femminilità in dialogo con la libertà sessuale, con un diverso modello di moglie e madre come rivela in Ti ho sposato per allegria di Luciano Salce (1967) e Io so che tu sai che io so (1982), per la regia di Alberto Sordi suo compagno di strada.

Corpo, spirito, trasgressione

“Antidoto al mito della donna-fanciulla” come scrisse Maurizio Liverani su Momento Sera del 22 novembre 1966, la Vitti è corpo in movimento, accarezzata da colori che la portano a scoprire il potere e il piacere della moda (oltre alla pellicola di Salce è esemplare Fai in fretta ad uccidermi… ho freddo di Citto Maselli, 1967), la libertà del corpo esibito. È infatti Dolores ne Il disco volante di Tinto Brass (1964), celebre per la frase “dime porca che me piasi de più”, e tante altre ‘trasgressive’ nelle vicende di Noi donne siamo fatte così (1971), dodici episodi diretti da Dino Risi con la sceneggiatura di Age e Scarpelli, Ettore Scola, Luciano Vincenzoni, Rodolfo Sonego, Giuseppe Catalano.

È con Monica Vitti che la commedia all’italiana subisce un ripiegamento ‘intimista’, con lei che lo spettatore guarda e riflette sul proprio sé, sulla sciatteria dei pensieri, sui modelli introiettati. “Davvero siamo così?” è la domanda che risuona, fra amore libero e rivoluzione, lotta di classe e vizio del possesso.
Nel mezzo sempre lei, diva desolata e pungente. Irraggiungibile, eppure mai così vicina.


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Laureata con lode in Filologia Moderna presso l’Università di Roma "La Sapienza" con tesi magistrale dal titolo Da piazza Fontana al caso Moro: gli intellettuali e gli “anni di piombo”. È giornalista pubblicista e collabora con webzine e riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema e letteratura otto-novecentesca. Ha pubblicato su Treccani.it e O.B.L.I.O. – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca, di cui è anche membro di redazione. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del Cinema Italiano dedicato al cortometraggio.

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