Quando si pensa agli attori americani che hanno lasciato un segno indelebile nella storia del cinema è difficile pensare a Morgan Freeman, forse per il suo carattere schivo e la poca voglia di apparire (una scelta diversa e atipica rispetto a un’industria basata troppo spesso sull’apparire e sull’onnipresenza delle sue star), forse perché i ruoli più iconici che ha interpretato restano sottotraccia, scelgono la sottrazione invece dell’abbondanza, non attraggono la luce su di sé ma su qualcosa di più grande.
Nascere nel 1937 in una famiglia nera, padre barbiere e madre donna delle pulizie, e crescere dentro un’America ossessionata dall’ombra comunista e che uccide e discrimina chi non è bianco significa accettare di essere solo, di essere in svantaggio, di non avere niente in regalo e non dare niente per scontato. Morgan Freeman è un signor nessuno, che ha conosciuto il teatro a scuola per un provvedimento disciplinare che lo obbliga a salire sul palco e partecipare a uno spettacolo, un’arte che però abbandona all’università per arruolarsi nell’aviazione come meccanico. Una vocazione che resta dentro di lui e che continua a fiorire nei palchi sconosciuti di Off-Broadway e in compagnie di ballo dove mostra una versatilità artistica che attira l’attenzione di piccoli produttori e registi che all’inizio degli anni ’80 lo inseriscono in progetti cinematografici indipendenti.
Un viaggio che da quel momento non si interrompe più perché uno sconosciuto cinquantenne di nome Morgan Freeman viene nominato inaspettatamente agli Oscar del 1987 per il suo ruolo in Street Smart e Hollywood non gli farà più cambiare idea lanciandolo in una carriera costellata di ruoli iconici e performance indelebili.
Ancora oggi in attività e sempre più appassionato e attento al mondo della scienza con i suoi programmi televisivi e documentari dedicati, Morgan Freeman il 1 giugno compie ottantacinque anni e lo celebriamo ripercorrendo due delle sue performance più importanti lungo una carriera iniziata dal niente e che è arrivata a contare più di ottanta film.
Le ali della libertà, imparare a concedere spazio
Se per Morgan Freeman gli anni ’80 sono quelli della ribalta, gli anni ’90 sono quelli della consacrazione con ruoli cruciali in film con una risonanza e importanza globale. Dopo Glory accanto a Denzel Washington, Robin Hood con Kevin Costner e la prima di una lunga collaborazione con Clint Eastwood nel western Gli spietati, interpreta nel 1994 il detenuto 30265 di nome Ellis Redding, chiamato da tutti Red, in un film che si è scolpito un posto nella storia del cinema americano e che lo ha reso uno degli attori più importanti di quella storia.
Morgan Freeman in Le ali della libertà inizia a fare magistralmente una cosa che lo distinguerà da tutti gli altri, ed è quella di lasciare spazio. Lasciare spazio per riempire meglio il proprio, aiutare il personaggio di Tim Robbins quando arriva nel carcere di Shawshank per poi avere l’onore e la possibilità di essere aiutato quando sarà lui ad avere bisogno. Red quando vede Andy entrare in carcere è il 1947 e sono già vent’anni che lui è lì dentro, dentro un luogo che disperatamente ha già cominciato a chiamare casa. Red è l’unico che ammette a sé stesso e soprattutto agli altri di essere colpevole, l’unico che ogni singolo giorno affronta il rimorso e l’errore che ha commesso, la sua voce e il suo sorriso completano la solitudine di Andy, lo adattano e lo forgiano contro gli abusi e le sofferenze dei primi anni di prigione.
Un’amicizia talmente profonda e sincera che riesce a ribaltarsi totalmente, sarà Andy a spingere Red verso una libertà a cui aveva rinunciato, a lottare di nuovo per la speranza e lasciarsi alle spalle gli anni in cui è vissuto come se fosse morto. Un’agonia emotiva durata quarant’anni per arrivare al monologo finale dove esplodono la rabbia e la consapevolezza di aver vissuto in un sistema che non funziona, che invece di spingere alla riabilitazione spinge all’annullamento, dove esplode la fragilità di un uomo cambiato che però non ha avuto la possibilità di dimostrarlo al mondo, rimasto in gabbia nelle stesse quattro mura ad aspettare e accettare che la sofferenza diventi la normalità così da non provare più niente.
Seven, costruire una rassegnazione silenziosa
Qualche mese dopo aver ottenuto la terza candidatura agli Oscar per Le ali della libertà Morgan Freeman torna sul grande schermo con un ruolo altrettanto complesso e sfaccettato. Il progetto è una scommessa azzardata, basato su una sceneggiatura interessante che però non riesce a prendere vita e che viene assegnata dalla New Line Cinema senza troppe pretese al giovane e inesperto David Fincher, reduce dal suo travagliato e fallimentare primo film.
Appena trenta milioni di budget, neanche due mesi per girare l’intero film, due giovani attori come Brad Pitt e Kevin Spacey insieme all’esperto Morgan Freeman che però non ha ancora la risonanza dei nomi che hanno rifiutato il suo ruolo come Al Pacino e Robert Duvall.
Nasce così Seven, un film invisibile che finisce per diventare un cult della storia del cinema, in cui Freeman ancora una volta non è il protagonista, ma il testimone che accompagna la sua parte complementare in un viaggio all’inferno che li cambierà per sempre. Il suo personaggio si chiama William Somerset, è un detective stanco, svuotato da una città corrotta e violenta e che non ha la forza e la voglia di cambiare.
Freeman lo mette in scena con un viso scavato da una vita di sofferenza, con degli occhi che hanno visto qualsiasi cosa e che fremono di poter andare in pensione per vedere altro oltre a omicidi e morte.
Manca una settimana alla pensione, sette giorni come i sette peccati capitali, sette giorni che trascorre con il giovane detective Mills, colui che prenderà il suo posto, pieno di vita e voglia di cambiare il mondo, trasferitosi nella grande città per essere lì dove le grandi cose accadono. Insieme devono risolvere un caso più grande di loro e Somerset si accorge immediatamente della sua pericolosità, del viaggio tremendo che dovranno affrontare attraverso il male e la follia dell’essere umano.
Vorrebbe lasciare il caso, vorrebbe che non fosse il primo caso importante di Mills perché è ancora troppo vitale per una caduta all’inferno, ma le circostanze lo fanno avvicinare a quel partner così lontano da lui, ritrova in lui l’animo che aveva prima di spegnersi, trova qualcuno disposto a non arrendersi e allora si butta nell’ombra con lui anche è conscio di ciò che succederà. E nella scena finale Somerset vede materializzarsi quello che aveva già visto e Morgan Freeman gli costruisce attorno una rassegnazione dolorosa, un silenzio tremante mentre osserva Mills e il serial killer parlare in macchina, la goccia di sudore che sbuca dal cappello mentre apre la scatola, la corsa disperata in quel luogo deserto, gli occhi al cielo quando capisce cosa sta per succedere, la consapevole rassegnazione quando lo vede succedere.
A volte lasciare spazio significa rinunciare alla propria parte per completare un mosaico più grande, dare respiro e importanza a qualcosa di più profondo così da valorizzare ancora di più il proprio piccolo tassello. Morgan Freeman nella sua carriera si è anche preso la scena, ha interpretato addirittura la mastodontica figura di Nelson Mandela e quella di Dio, ma è quando ha condiviso il palco e si è completato insieme ad altri personaggi che i suoi sono riusciti a oltrepassare lo schermo ed entrare in una dimensione diversa.
Compie ottantacinque anni un uomo che parla poco, che rilascia poche interviste, con poche interazioni con il pubblico, che ha scritto la storia venendo dal niente, che parla con un accento spiccato di Memphis e che ha parlato solo tramite i personaggi a cui ha dato un’anima, un uomo che semplicemente bisogna ringraziare per aver cambiato idea e aver dedicato la propria vita all’arte audiovisiva.
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