Era a Venezia79, seduto nel bar di Palazzo del Casinò, camuffato in canottiera bianca di cotone e cappellino con visiera. Una vacanza meritata, forse un anticipo sul traguardo dei sessanta che il regista mette a segno oggi, al calar di settembre, o una boccata d’aria dal successo di Elvis, punta di diamante di una filmografia antinomica agli eccessi: sei lungometraggi, in trent’anni di carriera. L’estasi pindarica, verbosa e passionale del biopic strizza l’occhio allo “Spettacolo Spettacolare” di Moulin Rouge!, presentato in concorso al 54° Festival di Cannes, che a più di un ventennio dall’uscita conserva intatta l’indole visionaria del regista. Ispirato all’opera La Traviata, di Giuseppe Verdi, il musical atipico di Luhrmann rilanciò il genere, attingendo al culto musicale pop per una colonna sonora che attualizzasse l’esprit bohémien.
Il logo della 20th Century Fox, nel drappeggio del sipario, è introdotto dall’ensemble orchestrale che suona dal vivo sotto la guida del direttore: Moulin Rouge! si apre sull’enfasi melodica del can can, con uno slancio coreografico immersivo nella Parigi del 1899. All’indomani della rivoluzione bohémien, nel quartiere del peccato, Christian (Ewan McGregor) e Satine (Nicole Kidman) si innamorano, figli di un paradigma che li vuole complici portavoce di verità, bellezza, libertà e amore: “La cosa più grande che tu possa imparare, è amare e lasciarti amare”.
Moulin Rouge, la storia nella storia: il doppio spettacolo di Luhrmann
Parigi, 1899. Lo scrittore londinese Christian (Ewan McGregor) arriva a Parigi in cerca di fortuna. Nel quartiere malfamato di Pigalle, culla dello spirito bohémien, entra in contatto con la compagnia teatrale di Harold Zidler (Jim Broadbent), un impresario che ha fatto del Moulin Rouge la sua unica fonte di guadagno: luogo promiscuo, frequentato da uomini di malaffare e ballerine, il locale notturno, regno del piacere, è impreziosito dalle esibizioni della cortigiana Satine (Nicole Kidman), diamante splendente cui Zidler affida l’incarico di circuire il Duca di Monroth (Richard Roxburgh) affinché investa nella realizzazione del suo “Spettacolo Spettacolare”.
Tratta in inganno dalla frenesia dell’esibizione, Satine scambia Christian per il Duca, e i due si innamorano perdutamente. Compreso l’equivoco, Satine respinge i suoi sentimenti e mette lo scrittore alla porta, ma la visita imprevista del Duca la costringe a presentare Christian come l’autore dello spettacolo. Il prezzo da pagare per l’investimento è l’esclusiva su Satine. Lo spettacolo diventa la traduzione della storia d’amore proibita tra Christian e Satine: una cortigiana indiana, per salvare il proprio regno, è costretta a cedere alle lusinghe di un perfido Maharaja, ma il suo cuore appartiene ad uno squattrinato suonatore. I continui rifiuti di Satine aprono gli occhi al Duca che decide di uccidere il ragazzo. Zidler informa Satine della sua malattia, la ragazza finge di non amare più Christian per salvargli la vita, ma quando lo scrittore sale sul palco durante la prima Satine, in punto di morte, lo sceglie.
Cala il sipario. Satine muore tra le braccia di Christian, nella promessa che lo scrittore racconti la loro eterna storia d’amore.
L’onirico possibilmente reale: il cinema di Baz tra culto dell’irrilevante e sacralità delle icone
Moulin Rouge! è la meta, il cuore pulsante di un racconto che Christian comincia a scrivere dalla fine. Il regno del piacere, culla dei ricchi e dei potenti, ha chiuso i battenti: Satine è morta, e con lei il suo palcoscenico. “La donna che amavo è morta”, così prende vita il racconto dello scrittore, in un viaggio a ritroso nel tempo che Luhrmann strumentalizza come espediente letterario quanto registico: nell’origine, la sua chiusura, l’intera storia, la commedia, il dramma, lo spettacolo che deve continuare e non può fermarsi, neanche di fronte alla morte. Così il sipario diventa finestra sulla storia più antica del mondo – quella dell’amore destinato a trionfare oltre i paradigmi degli esseri senzienti – e luogo sicuro in cui abbandonarsi ai sentimenti senza destare sospetti. L’amore bohémien di Christian, all’indomani della rivoluzione del gusto e del piacere, è un manifesto di verità in chiave postmoderna: Luhrmann eternizza la tragicità dell’amore rappresentandola in scenari differenti e assolvendola dal luogo d’origine.
Il tocco sensibile del regista è la cifra bohémien di Moulin Rouge!, vero, bello, libero, innamorato, condizioni d’esistenza di un racconto che rende impossibile contenere i corpi. L’enfasi coreografica dell’ensamble, la fotografia vivida, la mise en scène magniloquente e iperbolica hanno rilanciato il genere in un musical che, della pervasività dei generi, è apripista. La regia di Luhrmann vive in funzione della scena, accelera sull’irrilevante, respira sul necessario, con una frenesia verbosa scandita dalla sovrapposizione di immagini e dialoghi roboanti: l’onirico è sovraesposto, dialogico, rosso brillante, il tragico è appena accennato, rallentato, cianotico. È nelle mani di Christian l’input vitale dei suoi personaggi, attori di ricordi in divenire sotto i nostri occhi, coreografici nel loro essere al mondo. È nelle mani di Luhrmann la ricodificazione di un genere, il tentativo spasmodico di riportare il cinema al suo status primigenio, l’entertainment. Un intrattenimento autoriale, dall’autorevole cifra stilistica, che il regista avvera nella sacralizzazione delle icone: il cinema di Luhrmann è eccessivo, dissonante, addizionale, irruento, ma non retrocede, ogni immagine è significante e significato, suono, senso e storia universale. Moulin Rouge! è l’onirico possibilmente reale, l’attrazione viscerale per tutto ciò che eccede, indefinibile, sazio d’amore.
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