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Niente da perdere copertina

Niente da perdere, il dilemma morale di una madre imperfetta

11 minuti di lettura

Niente da perdere è una storia che si compone tra le interferenze del caos che ne puntella i conflitti morali. Delphine Deloget si aggrappa alla realtà del cinema da cui proviene ed esternalizza, in questo suo primo lungometraggio di finzione, un’immediatezza che fraziona i giudizi e disossa un incauto dramma sociale. Il suo film scorre sottopelle alla gestualità impetuosa di un’intensa Virginie Efira, imbrogliata in una quotidianità tanto drammatica quanto plausibile, che da uno sfortunato incidente domestico avanza ineluttabile sulla strada del calvario per la riacquisizione della custodia del figlio.

Niente da perdere è il racconto di una madre scostante, amorevole ma impulsiva, appassionata e distratta, su cui piomba un destino incapace di dialogare con le particolarità, il rigore di un sistema giudiziario che alla tutela del figlio dissocia l’imprescindibilità dell’amore materno.

Quello della Deloget è un film di smarginature, il ritratto eccedente di una donna in lotta contro un’istituzione disumanizzata, inceppata in dimensioni rappresentative che vorrebbero indicizzare complessità ma commettono l’errore di adescare infelici parzialità. Su cui, però, la regista prende in parte posizione, intrappolando lo spettatore all’interno di un complicato dilemma morale.

Tutto da perdere, in assenza di collaborazione

Niente da perdere di Delphine Deloget

Niente da perdere irrompe un attimo dopo l’esplosione del caos. È sera, Sylvie (Virginie Efira) è al pub a lavorare, il primogenito Jean Jacques (Félix Lefebvre) non è ancora rientrato e Sofiane (Alexis Tonetti) è a casa da solo. Ha fame, quindi decide di cucinarsi delle patatine fritte. Ma qualcosa va storto e di quella cena, nella cucina, deflagrano i resti di ferite non rimarginabili: i segni di un’ustione di secondo grado, la segnalazione ai servizi sociali e l’inizio, imprevisto, di un incubo senza margini di redenzione.

La fattualità di Niente da perdere è scarna, agguantata tra i tentativi di Sylvie di recuperare il figlio e l’assenza di collaborazione da parte di un sistema congestionato in ingranaggi paradossali, incapaci di allinearsi alla singolarità delle occorrenze. Così le due settimane di affidamento si trasformano in mesi, i mesi in tempo illimitato, il tempo in una spazialità in cui ostacolarsi reciprocamente con aggressività.

È chiaro fin da subito che a mancare, nello scontro tra le parti, sia un reale ascolto dell’altro. La burocrazia entra in funzione con l’osservazione di una legge chiamata a proteggere il bambino ma inadatta a misurarsi empaticamente con il suo privato familiare. La famiglia è uno scorcio angusto di ambienti sovraffollati di problemi, solleticati da un’intensità relazionale che dichiara amore ma si smarrisce in condotte autosabotanti.

Il collante comunicativo è rissoso, inclinato naturalmente verso il sentimentalismo materno. Che di riflesso raffredda la temperatura umana degli assistenti sociali ristagnandoli in un ritratto inespressivo, maligno e spietato, poco utile al ragionamento critico sulla complessità del tema trattato. Soprattutto quando, ad essere contrapposta, è l’immagine vivida e riconoscibile di una madre indomabile, disposta a tutto pur di riprendersi suo figlio.

Niente da perdere, eccetto qualche criticità

Virginie Efira in una scena di Niente da perdere

Che Niente da perdere volesse esplorare l’inadeguatezza di un sistema non puramente riabilitativo e non conciliante con gli sforzi genitoriali è una rispettabile premessa narrativa. D’altronde Sylvie ci prova davvero, ma qualsiasi sua azione si trasforma in una reazione peggiorativa, sia che agevoli i comportamenti richiesti, sia che vi si opponga. Il merito dello slancio della Deloget è racchiuso nei quesiti che cerca di somministrare, nel modo in cui ci invita ad assumere, per tutto il tempo, il ruolo scomodo di giudici (im)parziali della vicenda, oscillanti tra la necessità di proteggere il bambino e l’empatia verso un’innegabile responsabilità e premura materna.

Per campionarne le forze, Niente da perdere si avvale della scrittura di un personaggio ambiguo, veicolato da una controversa equivocità che stonda la caratterizzazione della protagonista. Sylvie è una donna sanguigna, indisponente, dignitosa, attenta ma tremendamente testarda. Tutte le persone che le gravitano attorno la invitano al silenzio, le intimano di ascoltare l’altro, ne attestano un’attitudine ribelle.

Così lo spettatore è intercettato a ragionare sul suo temperamento, a decifrarne le sfumature, chiedendosi se i gesti estremi, le reazioni irresponsabili e le progressive radicalizzazioni siano frutto del dramma in cui si ritrova o un preoccupante segnale d’allarme, a giustificazione della prudenza dei servizi sociali.

Niente da perdere ha il merito di dissotterrare senza sconti né pietismi le trappole di una genitorialità inesorabilmente imperfetta. Non c’è giudizio nei confronti di una donna e di una madre che sa essere donna e madre indipendente, commettere errori di ingenuità, cercare di recuperarli e poi ricadere nella morbosità di un circuito chiuso, da cui sembra impossibile ottenere indulgenza. Quindi è indotta a fare di testa sua, dirottando verso quel tipo di atteggiamento disperato che, forse, qualsiasi genitore adotterebbe in assenza di possibilità.

D’altro canto, però, la controparte esiste solo a metà, poggiata su direzioni di scrittura troppo semplificate per incanalare una valida alternativa a supporto dei quesiti su cui il film tenta di costruirsi. L’istituzione è un gelido meccanismo spersonalizzato a favor di camera, composto da individui facilmente detestabili, non pensati per restituire una credibile e utile tutela alla cura di Sofiane.

Niente da perdere, in fin dei conti, non si svalorizza nel suo tentativo di denuncia, nella sua onesta volontà di testimoniare una drammatica cronaca sociale. Niente da perdere si infragilisce quando invalida i suoi interrogativi, perché posti nella parzialità con cui ci permette di osservarli, debilitando il valore degli scarti differenziali tra le vicendevoli esigenze cautelative e vacillando tra presa di posizione e presunta neutralità.

Altre prospettive, altre verità

Félix Lefebvre in una scena di Niente da perdere

Decentrato da Sofiane, da Sylvie e dalla contesa con gli assistenti sociali, c’è un altro film. E se esiste una chiave attraverso cui decodificare l’umanità che popola quel film, essa è custodita nella sensibilità del figlio più grande: Jean Jacques. Adulto in un mondo di quasi-adulti, il ragazzo è instancabilmente richiamato alla responsabilizzazione emotiva, trascurato da uno sguardo incurante degli sfoghi cutanei del suo disagio. Niente da perdere si limita a invocarne alcuni guizzi caratteriali, disallineando dei traumi lasciati a ribollire nel fuoricampo narrativo. Che si tratti della morte del padre o dei disordini alimentari, Jean Jacques è relegato a vivere nell’ombra performativa e approssimativa del riconoscimento materno.

D’altronde Sylvie è il concentrato di una famiglia disabituata al dialogo relazionale, ineducata alla profondità introspettiva. Fra lei e i suoi fratelli riemerge il sommerso di tensioni irrisolte, la sua vita è una lunga pausa da un sogno lasciato in sospeso, di cui poco ci viene svelato ma che molto sembra aver a che fare con la Spagna e con la musica.

Nella musica si snoda il filo sottile e connettivo tra la madre e il figlio (che suona la tromba per compiacerla), un palliativo esemplificativo del genere di accudimento che Sylvie conosce. È un sentire di superficie, l’ascolto di un ronzio di fondo che non sa come penetrare l’interiorità e quindi comprendere, percepire ed accogliere i bisogni di chi le sta intorno.

Allora Niente da perdere accosta le difficoltà malcelate del ragazzo alla dirompenza vitale di Sylvie, il suo tormentato rapporto con il cibo alle immagini della festa dove la mamma si diverte con gli amici; la Deloget gli fa nascere dentro il sogno di un futuro diverso e poi lo costringe al compromesso. Quel compromesso, per Jean Jacques, è la scissione dalla presenza genitoriale, la conseguenza di una scelta inevitabile che inevitabilmente ricade su di lui, inacidendo un disequilibrio educativo su cui Niente da perdere decide di non soffermarsi troppo, rincorrendo un finale non assolutorio, ma coerente, che libera il racconto nei suoi primordiali binari di appartenenza e lascia a chi guarda il compito di stratificare la discussione.


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Laureata in Cinema e Comunicazione. Perennemente sedotta dalla necessità di espressione, comprensione e divulgazione di ogni forma comunicativa. Della realtà mi piace conoscere la mente, il modo in cui osserva e racconta le sue relazioni umane. Del cinema mi piace l’ascolto della sua sincerità, riflesso enfatico di tutte le menti che lo creano. Di entrambi coltivo l’empatia, la lente con cui vivere e crescere nelle sensibilità ed esperienze degli altri

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