La Germania presenta la sua seconda trasposizione della celebre autobiografia d’inchiesta di Christiane Vera Felscherinow, Noi i ragazzi dello Zoo di Berlino. Dopo la sua pubblicazione a puntate sulla rivista tedesca «Stern» nel 1979, la cruda realtà metropolitana di una Berlino innaffiata dall’eroina arrivò in Italia nel 1981. Lo stesso anno in cui il regista Uli Edel portò sul grande schermo un film di culto generazionale, non intriso della precisione descrittiva del romanzo, ma fiore all’occhiello della decade anni Ottanta nella sua veste più scura e tremendamente vera. Così, a distanza di quarant’anni, anche Amazon Studios inaugura la sua personale rivisitazione di Noi i ragazzi dello Zoo di Berlino: finzionale, patinata, ma non solo.
Dal 7 maggio, sulla piattaforma Amazon Prime Video, approda infatti il sottobosco dei Kinder del Banhof Zoo. Così come vennero definiti dai giornalisti Kai Hermann e Horst Rieck, autori dell’intervista a Christiane F., perché erano solo bambini. Giovani anime di tredici anni o poco più abbandonate alla solitudine e all’euforia distruttiva di una sensazione di parziale appagamento estatico. La loro ingenuità si canalizza tra le strade di una città che ingloba la perdizione e la espone davanti al luogo di passaggio e solitudine per eccellenza: la stazione di Berlin Zoologischer Garten. Proprio quest’ultima viene definita nella SerieTV da Christiane, interpretata da Jana Mckinnon, come un luogo triste, in cui nessuno vuole restare. Eppure, un gruppo di sei Kinder la rende il rifugio di una gioventù bruciata.
Gli addii, quelli che vanno, quelli che restano
La stazione si può dipingere nel trittico di espressioni che il pittore futurista Umberto Boccioni usò per i suoi Stati D’animo (1911). Tre quadri che mostrano l’incedere di un viaggio ferroviario dalla prospettiva dei suoi spettatori. Tra questi, quelli che maggiormente soffrono la partenza sono coloro che rimangono, che vedono passare dinnanzi il treno delle possibilità, delle speranze e delle responsabilità. Perché tutti i giovani che affollano la stazione di Berlino sono inibiti da qualsiasi consapevolezza, divorati dalla dipendenza da eroina che li porta a concedersi sessualmente anche per pochi spiccioli. E sul finire degli anni Settanta, ci sono anche i nostri.
C’è sempre chi ha già iniziato e trascina tutti. Nel nostro caso è Axel (Jeremias Meyer), un ragazzo dal cuore buono, scappato di casa, trascinato nel giro da una prostituta, ma deciso a rifarsi una vita con un degno lavoro. Tuttavia la fascinazione dell’ago ipnotizza tutti, a partire da Michi (Bruno Alexander), il primo a parlare della Stazione agli altri. Ama il suo migliore amico Benno (Michelangelo Fortuzzi) dalla bellezza dannata e la facile promiscuità. Un ragazzo libertino, imprevedibile, che si lascia trascinare dagli eventi, ma trova un primo amore, o forse solo un desiderio di appartenenza, con Christiane. Nessuno avrebbe pensato che la prima della classe finisse in un giro di droga, ma succede, e la dolce ragazza diventa una sfacciata amazzone del pericolo. Con lei ci cadono Stella (Lena Urzendowsky), il cui carattere forte è sfregiato da un terribile abuso e la piccola Babsi (Lea Drinda), fatina innamorata di un mondo incantato che non esiste, e non perdona.
Noi i ragazzi dello Zoo di Berlino su una giostra fatale
“Noi facciamo la vita migliore che esista” dice Christiane. Perché Noi i ragazzi dello Zoo di Berlino vive di un incanto estetico eccessivo che richiama le sfumature ipnotiche di Euphoria. La percezione del mondo ci appare così attraverso lo sguardo degli inconsapevoli protagonisti. Come una giostra da luna park che invita a un altro giro senza chiedere nulla in cambio. Così la discoteca Sound, ammaliata dalle luci stroboscopiche, nutre il desiderio di immortalità dei nostri protagonisti. E lo stile registico rispecchia una rappresentazione onirica, surrealista, a tratti teatrale, dove vita e morte si intrecciano in un mondo fantastico, immaginario, defezionato dalla realtà. Tutto quello che vediamo è dannatamente bello, troppo per dimenticare la sporcizia e il respiro cimiteriale dei necrologi in prima pagina.
La fine degli anni Settanta incorpora la Trilogia Berlinese di David Bowie, quando il camaleontico cantautore approdò nella capitale tedesca, abbracciando i suoi bimbi sperduti. I primi episodi di Noi i ragazzi dello zoo di Berlino sfruttano dunque la magia delle sue canzoni, che lentamente si disperdono, sempre a bordo di quella giostra delle meraviglie, da cui tutti prima o poi scendono e su cui poi risalgono. A frenare la loro avanzata intervengono a volte i genitori. Dal loro sguardo si percepisce la decadenza, ma sempre in modo labile, come se anche loro fossero incapaci di agire. In quel mondo anche gli adulti sono bambini, inermi e spietati, vittime e carnefici. Sopraffatti dall’egoismo, dai vizi, non sono punti di riferimento. Così affiorano la depravazione e lo sfruttamento, che agiscono su una comune debolezza.
Il problema dilagante dell’eroina
Ma il centro focale della narrazione punta all’eroina. Un piacere distruttivo e venale che sembra al pubblico incapsulato in un tempo lontano. Quello rappresentato recentemente dal documentario Netflix, SanPa, che ha mostrato senza filtri alle nuove generazioni una verità pregnante. Quelle anime accasciate nei bagni della stazione o sui marciapiedi, che ritroviamo in Noi i ragazzi dello Zoo di Berlino con edulcorazione visiva, sembrano scomparse oggi. Tuttavia esistono, anche tra i giovanissimi, nell’oscurità di un mondo che la maggior parte non conosce, non vede, perché non se ne parla. Oggi domina il poliabuso, in una rete di sostanze diverse che possono appagare, superficialmente, tutti i problemi. Così appare complicato illustrare una realtà che ormai pare estinta e che le nuove generazioni potrebbero non comprendere.
In una coltre nauseabonda di fumo di sigarette, iniezioni quotidiane e sfruttamento sessuale, ciò che si vede nella SerieTV colpisce, ma in maniera limata. Perché i nostri protagonisti sembrano divinità immortali, sempre bellissimi, anche nella loro perdizione, in un guardaroba vintage di preziosa spettacolarità scenica. Non si vedono i veri tossici del film di Claudio Caligari, Amore Tossico (1983), ma tutto sembra conformato alle esigenze stilistiche del 2021. Si tratta quindi di una modalità più dolce e sfumata di inscenare il problema, contribuendo a collocarlo in quel limbo temporale così lontano. Ed è anche il motivo per cui molti rinunciano a vedere la serie, per non restare avvolti da un magnetismo artistico che li allontana dalla verità e che, in un certo senso, li inganna.
Una cornice che rimane lacunosa
Vedere Noi i ragazzi dello Zoo di Berlino comporta dunque una scelta precisa. Da un lato c’è chi si è visto impartire il film del 1981 a scuola, in un’età corrispondente a quella dei protagonisti. Ne è rimasto affascinato o disturbato, tanto da essere incuriosito a vederne la realizzazione in un’altra veste più viziata dall’estetica. C’è chi invece ne ha fatto un caposaldo della propria cultura cinematografica e personale e uscirebbe distrutto dalla trasposizione seriale, che cerca di ritagliarsi frammenti di lieto fine in una realtà dove c’è quasi sempre qualcuno che salva le anime perdute. Perché, come titola un romanzo di Margaret Mazzantini, Nessuno si salva da solo.
Qualcuno è più fortunato di altri, ma sono gli sconfitti il vero cuore propulsore della narrazione. I fantasmi del loro passato, le fragilità, le debolezze accentuate dalla crudeltà esterna spingono verso una partecipazione emotiva. E la serie invita il suo spettatore a un patto narrativo, che lo porta nella mente ingenua, spensierata e svincolata da responsabilità dei nostri protagonisti. Quello che vediamo ci fa arrabbiare e ci rattrista, ma non distogliamo mai lo sguardo da un’esistenza altra incorniciata sullo schermo. Questa cavalca un climax discendente, che deficita con la progressione episodica, frammentandosi su lacune psicologiche e narrative. Noi i ragazzi dello zoo di Berlino è sicuramente una visione piacevole, che ci incanta con il suo stile e i suoi protagonisti, ma che rimane lacunosa.
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