Vincitore del Premio della Giuria al 72° Festival di Cannes (sezione Un Certain Regard) O que arde di Oliver Laxe è un film essenzialmente allegorico. Densa di richiami all’ancestrale (il fuoco, su tutti, e poi la terra – la terra arsa, feconda per un secondo e di nuovo spoglia, annientata), la pellicola si pone come un momento di sintesi riflessiva che avvita attorno a sé la forza del silenzio, il suo rapporto con i gesti quotidiani e con l’opportunità di perdonare, comprendere, lasciar vivere.
Il nucleo critico si svela dalla prima sequenza, laddove i fari delle macchine edili squarciano l’oscurità aprendo un varco nella foresta, come a introdurre la regressione dell’immaginario, un cortocircuito emotivo-visivo che rimanda all’impossibilità di comprendere, di discernere il reale. È questa la condizione che investe Amador (Amador Arias), un quarantenne rilasciato dopo due anni di prigione, “piromane che ha bruciato l’intera collina di Lugo”, tornato a vivere dall’anziana madre (Benedicta Sanchez) nel suo villaggio in Galizia.
L’estetica dissidente di O que arde
La banalità dell’esistenza, marchiata dallo stigma dell’infamia, si inquadra in confronti irrisolti, nelle domande basiche dell’anziana madre (“Hai fame?”) e nel silenzio-condanna dei vicini (solo una volta, a mo’ di battuta caustica, qualcuno dirà: “Hai da accendere?”), laddove il rapporto con il mondo procede per scarti e omissioni, piccoli atti di r-esistenza alle norme.
In questa prospettiva O que arde è anche un film sul linguaggio del quotidiano, sul rivelare ciò che la creanza riduce, nel momento in cui i personaggi si mostrano dinnanzi all’estraneità di Amador. Preceduto dalla sua storia (“È il piromane?”, “Si è lui”), questo individuo riflette i dubbi degli astanti, perturba i loro orizzonti di attesa per poi spogliarli delle convinzioni, dell’incontinenza verbale con cui si colma l’imbarazzo. Ne è esempio un dialogo tra il protagonista ed Elena (Elena Mar Fernández), una veterinaria locale che non sa – o non ammette – quel che riguarda Amador: “Ti hanno parlato di me?”, “Beh… sai come sono le persone”.
Questo silenzio opprimente, velato di una malinconia appena sottotraccia, dona al lavoro di Oliver Laxe un’estetica ‘dissidente’, che fa del non-detto uno strumento di lotta, un’indagine sul senso e il suono di una vita extra-ordinaria. È la musica il dato parlante, sin dall’incipit in cui risuonano le note di Vivaldi, quasi un’anticipazione della devastazione emotiva.
O que arde, un’opera asciutta
I colori, che provengono non dal reale, non dall’immagine che abbiamo della natura, ma dall’Erebo della psiche, dai recessi della mente, sono una sonda sulle tenebre, il diaframma attraverso cui lo spirito riesce a cogliere l’insondabile. Non a caso, un momento di tenerezza tra Elena e Amador è connotato dalla musica e da colori, tenui, appena acquietati, quando ascoltando Suzanne di Leonard Cohen lei dichiara: “Non c’è bisogno di capire i testi per apprezzare la musica”.
Nell’alternarsi di immagini e volti che puntellano la trama, Laxe favorisce brechtianamente l’allontanamento dello spettatore, nell’asciuttezza contenutistica che non induce all’immedesimazione e impone piuttosto uno scandaglio delle rapporti umani, un corpo a corpo con il dolore taciuto. Più che un re-enactment di rigore estremo, a cavallo tra documentario e opera fittiva, O que arde è dunque un film spoglio, che rifugge la gratuità visiva per godere della ricerca, per lasciare a chi guarda il fascino di uno stato primario – sia esso visivo, mentale, o ancora interno alle relazioni.
L’indagine di O que arde
Oliver Laxe non cerca eroi, non ha predilezione per il laconico Amador di cui pure indaga i respiri, lo sguardo dolente di chi prova a ri-costruirsi. C’è il male nel suo mondo, un male che serpeggia lento, insidioso, si incunea negli spazi quotidiani per scarnificare il reale. E la natura, carezzata dalla fotografia di Mauro Herce, è feroce, bellissima, in armonia con l’uomo finché non giunge il fuoco, la cupidigia, la sua brama demolitrice.
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