Prima di Parasite, di Burning e di Squid Game. Prima di Gangnam Style, dei BTS e delle Blackpink. Prima che il mondo intero si accorgesse dei peculiari prodotti artistici provenienti dalla Corea del Sud, c’è stato Oldboy.
Era il 2003, e mentre a pochi chilometri di distanza il futuro premio Oscar Bong Joon-ho girava un altro capolavoro moderno chiamato Memories of Murder, Park Chan-wook si occupava del secondo capitolo della Trilogia della Vendetta. Iniziata nel 2002 con Mr. Vendetta e terminata nel 2004 con Lady Vendetta, questa trilogia ideale vede il suo massimo splendore con il secondo capitolo, che si pone come un punto di svolta per il cinema coreano e per la sua considerazione fuori dai propri confini.
Oldboy ha seriamente segnato il destino cinematografico di un Paese. Un film incredibilmente potente, fuori dagli schemi e magnificamente eseguito, in grado di vincere il Grand Prix Speciale della Giuria del Festival di Cannes presidiato da Quentin Tarantino, che lo definì senza mezzi termini un capolavoro assoluto, nonché: “Il film che avrei voluto fare”.
Prigionia e bestialità
Seoul, 1988. Oh Dae-su (interpretato da Choi Min-sik) viene rapito. Si risveglia in una stanza sigillata, dove viene nutrito e fatto addormentare da persone a lui sconosciute. Nella stanza c’è un televisore che lo aggiorna su quel che accade nel mondo esterno, e che lo mette al corrente dell’omicidio ai danni della moglie, quindi del suo status da indagato numero uno. Nel frattempo si allena, si tatua e cerca di scappare. Poi tenta il suicidio, ma viene salvato dai suoi stessi carcerieri. La cosa più frustrante è non conoscere il motivo di tutto ciò, ma una cosa è certa: chiunque l’abbia imprigionato lo vuole vivo. Infatti, dopo quindici anni, si risveglia fuori dalla cella, sul tetto di un palazzo.
Dae-su è un uomo libero, e da qui inizia la sua missione alla ricerca del colpevole di tutto ciò. Sul tetto del palazzo incontra un uomo intenzionato a suicidarsi; Dae-su si avvicina a lui scrutandolo, poi annusandolo, infine toccandolo. Entra in contatto con lui come farebbe un animale, come se la prigionia l’avesse fatto regredire a uno stato primitivo. Gli racconta la sua assurda storia per poi lasciarlo al suo destino, sorridendo, ripetendo come un mantra la frase presente sul muro della sua cella: “Ridi, e il mondo riderà con te. Piangi, e piangerai da solo”.
Affacciatosi alla vetrina di un ristorante di sushi, Dae-su viene raggiunto da un misterioso individuo che gli fornisce un telefono e dei soldi. Affamato entra immediatamente nel ristorante, ordinando “qualcosa di vivo”. Arriva al tavolo un piatto di sannakji, una tipica pietanza coreana che consiste in piccoli polpi serviti ancora vivi.
Dae-su ha vissuto per quindici anni tra quattro mura come una bestia in gabbia. La sua ordinazione è la massima rappresentazione della vittima che vuole diventare carnefice, della bestia che una volta libera vuol far valere la sua bestialità. Dae-su non mangia per appetito, né per il gusto di farlo, ma per prevalere su qualcosa e per sopraffare qualcuno. Quindi si nutre con veemenza, cercando di risucchiare una pietanza che ancora si dimena aggrappandosi al suo volto, ma che resta imprigionata, sofferente, tra mura di carne e ossa. Una vendetta istintiva su degli esseri viventi senza colpe.
Una scena potentissima, iconica e interpretata magistralmente da Choi Min-sik (buddhista e vegetariano), perfetto nel trasmettere la ferocia omicida del suo personaggio.
Un revenge movie innovativo
Tratto dall’omonimo manga di Nobuaki Minegishi e Garon Tsuchiya, Oldboy presenta una sceneggiatura che gioca con i topos del revenge movie intrecciando le vendette dei due personaggi principali. Il protagonista ha l’obiettivo di vendicarsi del proprio rapitore (nonché omicida della moglie), ma anche quest’ultimo non è altro che l’autore di un enorme piano di vendetta nei confronti di Dae-su.
Lee Woo-jin (interpretato da Yoo Ji-tae) non vuole solo vendicarsi, vuole distruggere completamente la sanità mentale del protagonista. Dae-su è ormai fuori dalla sua cella, ma il mondo reale non è altro che “una prigione più grande”; egli resta un burattino manovrato dalle mani di Woo-jin, che mette in scena una sorta di Truman Show dove ogni scelta di Dae-su può esser stata in realtà una scelta di Woo-jin.
Ogni strada presa, ogni persona avvicinata, ogni sensazione provata. Ogni cosa può essere falsa, o meglio, orchestrata a regola d’arte per far andare le cose nel verso deciso da Woo-jin. Un villain calmo, calcolatore, sempre un passo avanti rispetto al suo avversario; sadico, dal potere sconfinato e con ormai niente da perdere, se non una vita dedicata interamente alla vendetta.
L’aggressiva eleganza di Oldboy
In Oldboy anche la violenza più estrema assume forme eleganti, tra piani sequenza, lente carrellate e musica classica. Park Chan-wook inquadra meravigliosamente i suoi personaggi, componendo quadri leggiadri che in movimento sanno trasformarsi in immagini violente e aggressive. Le scene d’azione risultano dinamiche ma composte, almeno fin quando i soggetti riescono a mantenere stabile la propria sanità mentale; quando le vicende diventano incontrollabili, lo diventa a sua volta anche la regia, che segue i personaggi sprofondare negli abissi più profondi del loro passato.
Guardando Oldboy sembra che Park non volesse sprecare neanche un’inquadratura. Quasi ogni immagine è composta virtuosamente, esteticamente curata con fascino geometrico, e sempre in modo tale che le immagini esaltino la narrazione anziché intralciarla. Il regista, il direttore della fotografia Chung Chung-hoon e il montatore Kim Sang-bum sperimentano avendo la consapevolezza della forza che può assumere l’immagine, cogliendo ogni tecnicismo come un’opportunità per adattare al meglio la sceneggiatura sullo schermo e raccontare quindi la storia nel miglior modo possibile.
La disperazione dei personaggi viene esaltata dalle manipolazioni esterne, in conflitto con le sensazioni più viscerali dell’essere umano. Oldboy – come da titolo – è un film-antitesi, un’opera in cui la mente è quiete e il corpo è rabbia. È attesa e immediatezza, freddezza e disperazione, lacrime e risate.
Per quanto sia difficile parlare di un film di cui si è già detto tanto, Oldboy è un’opera che riesce a dare sempre nuovi spunti di riflessione. Un capolavoro di rottura che è entrato improvvisamente nell’immaginario collettivo, sorprendendo gli spettatori di tutto il mondo grazie a una regia fresca e innovativa e a dei risvolti di trama sconvolgenti.
Vent’anni dopo resta tra i film più belli e importanti del ventunesimo secolo, con il grande merito di aver infranto la barriera dei sottotitoli a cui fa spesso riferimento Bong Joon-ho (collega e amico di Park Chan-wook). Oldboy è stato per tanti un punto di partenza nell’esplorazione del cinema asiatico, l’inizio di un viaggio attraverso opere di straordinaria bellezza. Un film cinematograficamente fondamentale sul piano artistico, storico, sociale e culturale. Ancora oggi influente, ma inimitabile.
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