Pacifiction. Una storpiatura di “pacificazione“. Pacifiction. “Peace + Fiction“, il racconto della pace. Una pace immaginaria, appunto raccontata come una favola.
Pacifiction, diretto da Albert Serra e in concorso al Festival di Cannes 2022, segue il Commissario De Roller (Benoit Magimel), rappresentante del governo francese a Tahiti, e il suo danzare di conversazione in conversazione con grazia e charme di cui solo un diplomatico sarebbe capace. Eppure questi suoi valzer di adulazione – o intimidazione – vengono di colpo messi a repentaglio dall’apparizione di militari francesi sull’isola: gira voce che il governo in Europa abbia deciso di riprendere i test nucleari nelle prossimità dell’arcipelago e né De Roller né gli autoctoni hanno intenzione di lasciare che ciò accada.
Pacifiction, l’estetica del potere
Chi già conosce la filmografia di Albert Serra sa che i suoi film, in un modo o nell’altro, avranno sempre a che fare con il potere: la perdita di potere (La Mort de Louis XIV), il potere sui corpi altrui (Liberté) e l’adorazione del potere (El Cant dels Ocells). Non sorprende perciò affermare che anche Pacifiction si occupa di quei giochi e di quelle sottigliezze che trasfigurano la politica in conversazione da salotto: Benoit Magimel, che grazie al film ha vinto il Premio Cesar come Miglior Attore, plasma un protagonista viscido eppure intrigante, che cattura l’attenzione del suo pubblico diegetico tanto quanto quella del pubblico in sala, con i movimenti delle mani, l’inflessione delle parole ed il vestiario sempre elegante.
Ma De Roller non è l’unico essere affascinante ripreso da Serra: il paesaggio stesso, le foreste, i tramonti e soprattutto il mare fanno da padroni, glorificati da una curatissima fotografia con l’intento ben preciso di renderli silenziosi protagonisti dell’intera vicenda. Lame di luce e mastodontiche onde evocano la presenza di divinità nascoste agli uomini, in procinto di riprendersi le terre che il colonialismo ha strappato dalle loro mani, mentre i colori saturati (rosa, viola, rosso) con cui le palme e le spiagge vengono dipinte indicano come la natura stessa sia stata sfigurata in modo indelebile dalla presenza di corpi a lei estranei, trasformandola in “cartolina di sé stessa“, ormai artificiale e patinata.
E proprio il colore sembra essere una delle maggiori preoccupazioni del regista che, oltre ad usarlo per sottolineare l’importanza degli ambienti, mira a rievocare un ben preciso stile cinematografico a cui buona parte della sua opera precedente faceva già riferimento: il cinema di Rainer Werner Fassbinder, in particolare il capolavoro del regista tedesco Querelle de Brest (1982), nel quale un marinaio uccide ed ama con la stessa intensità, in una spirale di sangue e sesso degna dell’omonimo romanzo di Jean Genet.
Tematiche ed estetica del film ritornano in Pacifiction: il potere accostato alla promiscuità (il bordello di Querelle nel quale il proprietario può sodomizzare i clienti che vogliono giacere con la moglie/ le discoteche nelle quali De Roller discute di politica con prostitute ed accompagnatrici varie), il mare artefice di un isolamento dal resto del mondo (Brest è città portuale che pare quasi non affacciarsi sull’entroterra/ le isole di Pacifiction sembrano appartenere ad una dimensione eterea e lontana dalla realtà) e per finire la fluida ambiguità di entrambi i protagonisti (Querelle non conosce il confine fra amore e violenza/ De Roller non si schiera né coi Francesi né con gli isolani).
Anche dal punto di vista stilistico, i colori di Serra sono un esplicito rimando al formalismo di Fassbinder: i cieli di Querelle, perennemente tinti di un vivido arancione e le banchine colorate di giallo, confluivano in un’esplosione di geometrie espressioniste volutamente irreali. Tutto questo trova il suo riflesso speculare nelle sfumature violacee che inondano le Isole Polinesiane di Pacifiction, sulle quali luci stroboscopiche di sale da ballo e città illuminate a giorno sporcano le suggestioni visive dell’alba e del tramonto.
Il mondo sommerso del post-colonialismo
Se il “significato” simbolico del film fa riferimento a Fassbinder e alle sue ossessioni, quello più apertamente politico è una personalissima aggiunta di Albert Serra.
Infatti non è difficile inserire il film in un ricco filone cinematografico dedito a riflettere sul post-colonialismo, in particolare francese: da La Battaglia di Algeri a Emitai, Dio del Tuono, molti registi dalle più disparate nazionalità hanno voluto dedicare attenzione al doloroso processo di decolonizzazione che fu imposto all’Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale.
In questo senso, Pacifiction non va solo ad aggiungersi al gruppo, ma sceglie saggiamente di ampliare il discorso: se molto cinema del secolo scorso ha puntato la camera contro gli orrori delle guerre e delle rivoluzioni, in pochi hanno affrontato la questione fortemente attuale del mondo post decolonizzazione, nel quale molte nazioni hanno ottenuto la propria indipendenza, ma tutt’ora sono costrette ad operare nell’ombra del loro conquistatore europeo.
La Polinesia Francese è una vera e propria Collectivité d’outre-mer, una parte di Francia staccata dal paese ma che vi fa riferimento per ogni decisione di carattere politico: risale al 1984 il primo statuto di autonomia interna, al quale ne sono poi seguiti altri che hanno, di anno in anno, rafforzato la presunta indipendenza dell’arcipelago. Eppure, il mondo ritratto nel film è ben lontano da quello raccontato a parole dalla Francia.
De Roller controlla tutto, sa in anticipo se avverranno manifestazioni, approva o disapprova eventi pubblici, sfida persino gli ormai obsoleti metodi con cui quel territorio era stato conquistato in passato: in una delle prime sequenze vediamo come minacci il prete di una comunità cristiana, intimandogli di farsi da parte per favorire le richieste di alcuni dei leader isolani.
La nuova colonizzazione avviene non più tramite la parola di Dio, ma grazie a cocktail e favoreggiamenti; gli intrighi di palazzo non sono più consoni alle mura di un ufficio privato e quindi vengono studiati su uno yacht o dal salotto di un lounge bar: l’unico a rimanere immutato da tutta questa politica è il mare, che sciaborda lento contro la costa, più imponente di qualunque forma di corruzione o conflitto, l’unico a risplendere ancora del suo colore naturale, un intenso blu.
Ed è proprio sul finale del film, quando i giochi saranno già stati fatti, che la lugubre luce rossa di una barca militare tingerà le onde di un intenso vermiglio, come a voler dimostrare che gli Europei e la Francia in particolare, riescano a portare ovunque vadano soltanto acqua “miracolosamente” mutata in sangue.
Seguici su Instagram, TikTok, Facebook e Telegram per sapere sempre cosa guardare!
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!