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Pain Hustlers – il business del dolore, l’avido declino dell’etica

8 minuti di lettura

In streaming su Netflix, e dalla stessa prodotto, con Emily Blunt e Chris Evans e la regia di David Yates, Pain Hustlers – il business del dolore racconta la storia vera della crisi degli oppioidi. Sulla piattaforma dal 27 ottobre, si tratta di un film che ha fatto storcere il naso alla critica per la ridondanza del tema, già sondato in Painkiller e La caduta della casa degli Usher, ma che tra il pubblico ha sollevato un generale apprezzamento.

Cosa racconta Pain Hustlers

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Ispirato a un articolo pubblicato sul NY Times, risalente al 2018, dalla penna di Evan Hughes, The Pain Hustlers tracciava il resoconto dello scandalo farmaceutico della casa Insys – qui Zanna, poi diventato anche un libro intitolato The Hard Sell: Crime and Punishment at an Opioid Start-Up.

Al centro del caso incriminato vi è per l’appunto Zanna, società farmaceutica sull’orlo della bancarotta. È un incontro fortuito quello tra Liza Drake (Emily Blunt) e il rappresentante farmaceutico Pete Brenner (Chris Evans): Pete la scova in un night club e le offre un lavoro come sua collega e sarà proprio Liza a riuscire nell’impresa di risollevare le sorti dell’azienda, facendole guadagnare il 400% del fatturato in meno di cinque giorni, convincendo un autorevole medico a prescrivere il Fentanil.

Il Fentanil è un antidolorifico molto forte, originariamente usato per la terapia del dolore oncologico; all’aumentare dei soldi però, si sa, il velo dell’etica si opacizza fino ad offuscare totalmente la mente avara di chi veste i panni del potere: il Fentanil comincia a essere prescritto in grandi dosi anche ai non malati terminali, che ne diventano dipendenti e in breve tempo vengono trovati riversi, morti di overdose. Tra posizioni morali difficili da prendere e la salute della figlia che va peggiorando, Liza è costretta a fare una scelta.

“Il dolore è dolore!”

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Le menti dei malati, soprattutto se terminali, sono facilmente malleabili, ma quelle dei medici interessati alle percentuali di commissione lo sono ancora di più. In Pain Hustlers, speculare sul dolore come chiave di svolta per diventare milionari è la ruota della fortuna che colpisce i meno fortunati. “Il dolore è dolore!” ripete ai convegni Pete Brenner, quando, avido di denaro, invita i rappresentanti a impegnarsi a vendere il farmaco anche come rimedio all’emicrania o al mal di stomaco, promettendo in cambio somme di denaro da capogiro. I pazienti diventano zombie, fanno la fila fuori dalla sala d’attesa degli ambulatori, fingono di non sentire sollievo così da avere ricette con dosaggi più alti.

Il parallelo che vede da un lato un mondo fatto di svaghi, droghe, mega feste e alcol, in vetta al paradiso, e dall’altro l’opprimente realtà delle conseguenze del primo, sul fondo del baratro, è la sottile linea di confine su cui Liza si rende conto di essere funambola. Viene denunciato il sistema sanitario di essere corrotto e sciacallo e si urla a gran voce l’altra malattia dilagante: l’avidità. Per tramite della voce narrante di Liza stessa, infatti, che commenta qua e là le immagini che vengono mostrate al pubblico, viene sottolineata anche la decadente sanità mentale del capo di Zanna (Andy Garcia) ossessionato dalla pulizia e dalle spie. Insomma, una discesa agli inferi sempre più vicina.

Pain Hustlers e la mancanza di umanità

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Un altro solo dipendente sembra avere dubbi sull’etica dell’operato, oltre a Liza: questi viene scoperto con un registratore nel bavero della giacca durante una riunione e licenziato. Le sue parole “l’ho fatto per tutelarmi” servono come monito per lo spettatore che assiste a un’ascesa vertiginosa destinata al declino proprio a causa di una mancata rete di sicurezza su cui cadere. Per conquistare i medici e quindi le prescrizioni con conseguenti commissioni tutto è lecito, dai regali ai favori, dal portare a spasso i cani al cedere percentuali di vendite. La corruzione dilaga, ma nessuno sembra prestarci più di un’occhiata veloce.

Di poco spessore e senza caratteristiche troppo degne di nota, i personaggi di Pain Hustlers appaiono del tutto indisturbati, involucri assuefatti dal dio dollaro. Liza Drake pare essere l’unica ad aver ricevuto un bagno di umanità, investita anche dalla necessità di guadagnare per potersi permettere le cure della figlia che soffre di crisi epilettiche e una vita lontana dai motel. Il mantra che a cadenza si ripete prima di andare a dormire apre una buona parentesi sul binomio soldi-rispetto, che però poi resta sospesa, persa nei meandri del declino aziendale e mentale dei diretti coinvolti.

I sensi di colpa si fanno vivi in Liza e scoppiano nel momento in cui le imminenti conseguenze del Fentanil sono ormai fuori controllo. Per redimersi si costituisce; viene allora aperto un caso e viene arrestato il medico, poi vengono condannati a un buon numero di anni di carcere Pete Brenner e Andy Garcia. La difesa di Liza spinge affinché la prigione non le venga inflitta come pena, per poter incentivare a denunciare le attività illecite, ma la richiesta non viene accolta e la condanna di un periodo di un anno e tre mesi applicata. Il dolore è dolore e non c’è penitenza che lo assolva.

Pain Hustlers, sì o no?

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Dipende. È un film ben fatto, con un buon ritmo, Emily Blunt interpreta ottimamente il ruolo perno della trama e i dubbi e le domande sul mondo odierno si posano correttamente nella mente dello spettatore. In generale, però, si sente la mancanza di un qualcosa di non ben definito che lascia perplessi. Forse è il modo in cui la conseguente overdose di massa viene toccata solo tangenzialmente all’egoistico senso di colpa della protagonista? Ai grilli parlanti la parola.


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