Pluripremiato alfiere dei David di Donatello, delle Palme D’Oro di Cannes e dei Nastri D’Argento, oltre di un inedito Premio Oscar, Paolo Sorrentino è il fiore all’occhiello della cinematografia italiana. Mai sazio di una bellezza decadente e grottescamente deformata, con i suoi 51 anni raccoglie sulle spalle un’eredità filmica invidiabile. Con uno sguardo attento e simmetrico, Sorrentino scandaglia il complesso e contradditorio animo umano, equilibrando il peso significante delle parole con la leggerezza di atmosfere pop che non rinunciano al dramma. Perché i suoi protagonisti sono perlopiù uomini soli, come quelli cantati dai Pooh, creature fragili imbrigliate in una matassa di eventi pittoreschi, ma amari.
Che sia la viziata Roma o una candida clinica tra le Alpi Svizzere, il luogo riflette la malinconia di anime deformate dalla stratificata psicologia delle loro personalità. Queste trapassano dall’ingenuità alla corruzione secondo una bellezza dionisiaca, non apollinea. Proprio sull’alterazione si gioca quindi il contrasto tra la perfezione estetica delle inquadrature e l’imperfezione dei personaggi che le attraversano. Talmente umani da risultare respingenti o voluttuosamente magnetici, i protagonisti di Sorrentino trovano pace nella loro solitudine e nel loro egoismo e avanzano verso lo spettatore come uomini claudicanti in cerca di un riparo. Se Dostoevskij diceva “La bellezza salverà il mondo”, Toni Servillo risponde “Cercavo la grande bellezza. Non l’ho trovata”.
La Grande Bellezza: il vizio che offusca la poesia
La pellicola del 2013, vincitrice di un Premio Oscar come migliore film straniero è l’eccelso ritratto di una bellezza in edonistica putrefazione. Quest’ultima si manifesta nello sfarzo di una Città Eterna patinata, ma solo in superficie. Per questo la bellezza dimora nelle maschere dei protagonisti, ammalianti figure che nascondono la risata deformata dei dipinti di James Ensor. Tra luci e colori, sulle note della canzone A far l’amore comincia tu della celebre festa in terrazza, la poesia e la genuinità dell’arte rimangono soffocate dai vizi contemporanei. Non c’è morale, laddove i valori cedono il passo all’ironia goliardica e baccanale del puro piacere seviziato dalla mondanità. Così che rimangono solo “sparuti sprazzi di bellezza“.
L’amore si traduce quindi in voluttà erotica, la solitudine si cela dietro un senso di comunità e appartenenza artefatto. L’apparenza è l’unica cosa che conta a discapito delle vere emozioni. E allora ne La Grande Bellezza affiora il grande paradosso dei nostri tempi, dove il lato marcio della mela viene nascosto per far apparire bella e armonica una composizione di frutta. Così ci viene riconsegnato il ritratto della società attuale, avvizzito nella sua componente più genuina, ma glorioso nella sua rappresentazione mediatica. Per questo sia benedetto chi ha ancora il coraggio di porsi domande sulla realtà, di scavare la profondità sotto la superficie. Come Jep Gambardella, l’intramontabile Toni Servillo nelle vesti di profeta della poesia. Lui, amante solitario in Le conseguenze dell’amore (2004) incarna la saggezza di una vecchiaia eternamente giovane.
Youth: l’estetica della giovinezza vista dalla vecchiaia
Dopo la cornice di cinismo, solitudine ed erotismo del 2004, la Svizzera torna roccaforte di personaggi alla Federico Fellini in un ambiente limitato nello spazio e nel tempo. Una clinica sulle Alpi svizzere diviene così il terreno di confronto di una bellezza piegata dall’età e dall’erosione del tempo. Ecco dunque che due mirifici interpreti, Michael Caine e Harvey Keitel, si destreggiano in passeggiate e conversazioni esistenziali in un rapporto che indaga il confronto sul succedersi delle età. Il tutto incanalato nella bellezza paesaggistica montagnina e nel candore illibato della struttura che lascia emergere una profonda e innocente nostalgia. E la pellicola, criticata per proporsi come un intrigante esercizio di stile registico, inscena un percorso labirintico di diverse tematiche sorrentiniane dove la bellezza va cercata.
L’estetica della vecchiaia, dunque, non si traduce nella coltre di trucco dell’anima decadente di Cheyenne (Sean Penn), rockstar fossilizzata in un’epoca che non le appartiene in This Must Be The Place (2011).Piuttosto traduce quella scena finale di uno spazio fuori dai confini del mondo, di un limbo silenzioso e assopito dove i protagonisti possono confrontarsi unicamente con i loro pensieri. Ogni fotogramma rappresentato è pregno di icone, di simboli di un mondo altro, da Diego Armando Maradona a Miss Universo, che trasudano la bellezza dello star system ma la veicolano in una dimensione onirica e incantata. Tutti sono comparse nel teatro della vita e così appaiono, come tableau vivant, quadri viventi, incastonati in una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio. La bellezza è figlia della riflessione, di un desiderio di immortalità dove la sofferenza non ha paura di mostrarsi, seppur edulcorata.
The New Pope: un compendio sulla bellezza
Tutti gli aspetti di Sorrentino come poetico narratore della vita e delle sue stagioni ritornano in The New Pope, seconda stagione del 2020 dopo la spettacolare prova attoriale liturgica di Jude Law in The Young Pope. Ancora una volta la bellezza ritorna come paladina di un mondo contrastante. Così i bellissimi orpelli artistici del Vaticano danno dimora a creature enigmatiche, divise tra amore sacro e profano. Le unisce l’estrema sensibilità di Sir John Brannox, il nuovo Papa che veste la sacralità interpretativa di John Malkovich. Lui incarna l’apoteosi della bellezza per Paolo Sorrentino, attraverso lo sguardo di un uomo che soffre per “l’inesauribile imperfezione del mondo” e che si dichiara lui stesso un essere imperfetto. Se “Accettiamo l’amore che pensiamo di meritare”, come cita una frase del film Noi Siamo Infinito, allora quello che riceviamo è un amore distorto.
La bellezza perfetta, armonica ed equilibrata è quella che risponde idealmente ai principi morali. Tuttavia l’utopia di un mondo imperfetto si spezza sotto il peso di una realtà profanata e impreziosita dalle sue imperfezioni. Non sappiamo se esista un Dio che elargisca i principi armonici di una bellezza perfetta, ma abbiamo “un disperato bisogno di credere che esista“, come afferma il Cardinale Gutierrez. Così si tende a vedere la bellezza laddove non esiste oppure dove dovrebbe esserci. E la sua superficialità porta a volte a un desiderio di approfondimento, altre solo a un semplice appagamento di ciò che vediamo. Per questo Sorrentino ci mostra entrambi i lati della medaglia, con la consapevolezza che la bellezza è personale e al tempo stesso utopica.
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