“È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura… Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile”
“Cercavo la grande bellezza. Non l’ho trovata”
Atterrito dalla decadenza della Roma mondana, Jep Gambardella racchiude in poche parole il dualismo sorrentiniano: splendore e decadenza coesistono tra la magnificenza del creato e la solitudine della condizione umana.
È stata la mano di Dio: Paolo si racconta
Tra le colline residenziali del Vomero nasce Paolo Sorrentino, figlio degli anni Settanta. Quella Napoli intrigante e spirituale, perennemente sospesa tra il sacro e il profano, l’ha cresciuto all’insegna della bellezza e della grandiosità.
Una normale famiglia del Sud, la sua: mamma casalinga, papà impiegato, un fratello. La sua infanzia scorre placida sotto il sole della costa campana. L’aria che si respira a Napoli è un misto tra la brezza marina e l’odore degli agrumi sfiorati dal calore estivo. Un mito aleggia tra le vie partenopee: quello di Diego Armando Maradona, la leggenda calcistica che più di ogni altra è riuscita a far brillare la tanto amata squadra della città. Anche Paolo, da bravo napoletano, non poteva essere immune al fascino del gioco del pallone e seguiva con il fiato sospeso le imprese in campo del Pibe de Oro.
La Mano de Dios, lo chiamavano, a causa di una rete della vittoria segnata di mano ai Mondiali dell’86. Nella vita di Paolo, però, Maradona è stato davvero la mano di Dio. Il regista ce lo racconta nella sua ultima opera, squisitamente autobiografica. Sorrentino infatti era solito andare in vacanza con la sua famiglia in Abruzzo, a Roccaraso, dove possedevano una piccola casa di montagna.
Nell’anno dell’arrivo di Maradona al Napoli Paolo aveva 16 anni e riuscì per la prima volta a convincere i suoi genitori a farlo rimanere in città per l’occasione. Ai festeggiamenti delle tifoserie per la partita Empoli-Napoli si aggiunse un fatale evento. Proprio durante quel weekend i genitori del regista rimasero vittime di una fuga di monossido di carbonio sprigionata dalla stufa di casa. Evento di svolta per la vita di Sorrentino, che fu salvato dalla medesima sorte proprio grazie al tifo per Maradona.
L’epifania cinematografia del maestro di sensibilità
In È stata la mano di Dio un incontro in particolare è tanto profondo quanto catartico. Quello tra Fabietto, l’alter ego del giovane Sorrentino, e il regista Antonio Capuano nella suggestiva Piscina Mirabilis di Bacoli. “Ma ce l’hai una cosa da dire?”, tuonano le parole del regista napoletano tra le grotte che sfiorano il mare. Fabietto risponde con un timido “Sì”.
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Sorrentino ci racconta tramite questa scena, a metà tra sogno e realtà, la sua epifania cinematografica. Il momento della realizzazione, ancora permeato dal dolore per la prematura perdita dei genitori, attraversa il corpo del giovane ragazzo. Un risveglio artistico, una seconda nascita, quasi un’illuminazione che, sullo sfondo di una Napoli incantata, ha spinto Paolo a diventare il Sorrentino che tutti conosciamo.
Paolo di cose da raccontare ne ha molte. Decide allora di inseguire il suo sogno e si trasferisce a Roma. Farà della città eterna la sua seconda casa, catturato dalla sua essenza celestiale e dalla sua superba magnificenza. Nella capitale il regista troverà amore e ispirazione.
L’uomo in più: l’esordio di Sorrentino alla regia
Nel 2001 il suo esordio alla regia con L’uomo in più. Già con il primo lungometraggio si possono individuare gli elementi che accompagneranno quasi ogni opera sorrentiniana. Il film parla di due uomini accomunati dallo stesso nome, un cantante e un calciatore, rispettivamente interpretati da Toni Servillo e Andrea Renzi. Entrambi falliti, caduti in rovina dopo un breve periodo di successo, cercano di rivivere i loro giorni migliori tentando la rivalsa.
Nonostante la forza di volontà e la dedizione, la disfatta dei due antieroi è inevitabile. L’epilogo tragico sembra scritto nei destini dei misteriosi e impenetrabili protagonisti, rinchiusi e condannati a un’esistenza di eremitica solitudine.
Inizia proprio con questa prima pellicola la collaborazione tra il regista e Toni Servillo, presente in ben sei dei suoi nove lungometraggi. L’attore riesce a catturare l’essenza dei protagonisti che abitano le sue opere sempre con nuove sfaccettature, ma rimanendo fedele all’archetipo di uomo a cui il regista si ispira nei suoi lavori. Dal set è poi scaturita, negli anni, una vera e propria amicizia basata su affetto e stima reciproci.
Servillo ha dichiarato di emozionarsi ogni volta che Paolo lo sorprende con una nuova e intensa sceneggiatura. Sorrentino, dal canto suo, è sempre rapito dall’incredibile ventaglio di personaggi interpretati egregiamente dall’attore. Il mondo del cinema non può che ringraziare per questo duraturo sodalizio che ha fatto vivere sul grande schermo uomini di incredibile spessore e complessità.
Le conseguenze dell’amore: la svolta del cinema d’autore italiano
Nel 2004 arriva Le conseguenze dell’amore, opera ibrida che unisce profondo esistenzialismo e mistero. Nuovo film, nuovo uomo alla deriva, nuovo volto per Toni Servillo. Questa volta il protagonista è Titta di Girolamo, che “di frivolo ha solo il nome”: un cinquantenne senza sonno che vive in una camera d’albergo di un paesino della Svizzera italiana. Soggiogato dai segreti della sua esistenza passata, Titta, rappresenta il perfetto emarginato. Solo, indecifrabile e tormentato, è vittima di se stesso e delle proprie scelte.
Sorrentino si diverte a giocare con spazi e simmetrie. Racconta, più attraverso le immagini che attraverso i dialoghi, l’incurabile senso di vuoto e incertezza che attanagliano colui che è ridotto a spettatore della propria esistenza. La poca sostanzialità della trama e l’enigmaticità visuale rendono Le conseguenze dell’amore un punto di svolta del cinema d’autore italiano, che grazie a questo film amplia il suo pubblico e viene, in un certo senso, normalizzato.
Il divo, ovvero il grande ritorno del cinema politico
La perfezione formale di Sorrentino raggiunge poi il suo apice con Il divo, film del 2008 ispirato alla vita di Giulio Andreotti. Un irriconoscibile Servillo è, ancora una volta, alle prese con un personaggio articolato e multiforme. Paolo utilizza il cinema politico per parlarci di difetti e contraddizioni dell’Italia degli anni Novanta. La geometria delle inquadrature incornicia il Divo Giulio: un uomo che ce l’ha fatta, ma arrivato all’apice si rivela miserabile tanto quanto gli altri personaggi sorrentiniani.
Il potere, tanto bramato e desiderato, si rivela arma a doppio taglio e gabbia dorata che reclude e marginalizza in maniera proporzionale. Il divo sbanca il botteghino e, con il suo fascino grottesco, conquista il pubblico italiano innalzando il regista a figura di intellettuale contemporaneo. Il genio di Paolo è finalmente svelato ai più: il regista unisce il reale con il fittizio in una commistione paradossale che passa attraverso immagini patinate e sequenze scattanti e vertiginose.
La grande bellezza: Sorrentino fa la storia del cinema
Dopo una breve parentesi internazionale con This Must Be The Place, film ovviamente tragicomico con protagonista un burtoniano Sean Penn, arriva il capolavoro spartiacque del cinema italiano: La grande bellezza. Da subito il lungometraggio è stato ricoperto di riconoscimenti: un premio Oscar come miglior film straniero, nove David di Donatello, cinque Nastri d’argento, un BAFTA e un Golden Globe, per citare solo i più importanti.
Universalmente riconosciuto come l’apoteosi sorrentiniana questo film-manifesto della città di Roma ha incantato con miseria e nobiltà il mondo intero. Jep Gambardella, ancora una volta interpretato da Toni Servillo, è l’intellettuale osannato da molti e compreso da pochi, colui che vuole il potere di far fallire le feste. Con la sua retorica affonda, una dopo l’altra, le personalità decadenti e depravate che abitano una città fatta di orrore, volgarità e mondanità fasulla e rivoltante.
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La città eterna non ha più nulla di felliniano, la dolce vita è ormai solo un lontano ricordo. Il lento declino della bellezza e l’inesorabile corruzione morale sono al centro della non-narrazione de La grande bellezza. Divagazioni e dialoghi interiori si avvolgono in una meta-riflessione sulla fama e sullo spettacolo. Come antitesi: la magnificenza strutturale e la ricercatezza estetica delle immagini della capitale, catturate in una versione quasi inedita dall’occhio sapiente del regista.
La serialità d’autore: The Young Pope e The New Pope
Ma a Sorrentino non bastava prendersi il mondo del cinema, ha voluto lasciare il segno anche sul piccolo schermo. Tra il 2016 e il 2020 il regista si è dedicato a due miniserie interconnese fra loro: The Young Pope e The New Pope. Jude Law e John Malkovic, rispettivamente Lenny Belardo e John Brannox, interpretano due papi misteriosi e provocatori, ma agli antipodi. Scorrono più o meno lenti gli episodi delle due serie, confermando la torsione a-narrativa tipica del regista, che si perde in rappresentazioni visivamente appaganti ed evocative.
Attraverso equilibri e geometrie Sorrentino mette in scena le sue ossessioni, relegandole questa volta ad un assetto spirituale tanto fallace quanto seducente. Una modernità appena accennata fa capolino sulla soglia di un cristianesimo decadente che però non si priva di barocchismi e scintillii. Con il suo simbolismo enigmatico e due personaggi dal carisma magnetico Sorrentino diventa fautore anche di una televisione d’autore.
L’assenza è presenza nelle opere di Sorrentino ed è ciò che non avviene a parlare più eloquentemente delle parole. Magnificenza e armonia delle scenografie cittadine contrastano con la solitudine autoreferenziale dei personaggi che si muovono al loro interno. I silenzi intriganti e misteriosamente affascinanti lasciano oscillare le realtà create dal regista tra simbolismo ed esistenzialismo. Si innalza a intellettuale tormentato, Paolo Sorrentino, che ha consacrato la nuova estetica cinematografica della miseria, frutto della sua inesorabile condanna alla sensibilità.
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