Un uomo esce di casa ogni mattina, guarda il cielo, sorride e va a lavorare. Il suo impiego è quello di pulire i bagni pubblici di Tokyo, occupazione a cui si dedica con profondo impegno, con cura certosina. Il protagonista di Perfect Days è un abitudinario: ascolta sempre le stesse cassette, si dedica quotidianamente alle sue pianticelle, mangia sempre negli stessi posti e legge prima di andare a dormire.
Perfect Days, spicchi di una vita che rimangono
Perfect Days, l’ultimo lavoro di Wim Wenders, non racconta della vita di quest’uomo, né di come si è arrivati a queste abitudini o del perché siano così: mostra qualche giornata di questa vita, giorni che non si differenziano uno dall’altro per qualche accadimento incredibile, ma sono anzi del tutto simili tra loro. Lo spettatore di questo film rimane stupito nel non venir stupito da nulla, è costretto a chiedersi il perché della scelta di mostrare giornate in cui poco accade.
Tuttavia, dopo essere uscito dalla sala e nei giorni successivi, qualcosa rimane dentro lo spettatore, un pensiero che non si ferma, che rimane nella mente. Perfect Days fa questo, è difficile spiegare il perché. È un ricordo che rimane costante nella mente e ripete: “forse rallentare, dedicarsi alle cose, è qualcosa che andrebbe fatto, senza paura, senza badare a cosa si fa ma facendolo al meglio”.
Il film di Wim Wenders è esplicabile così, un film che è un capolavoro di cinema nel suo essere anti-cinematografico. Perché cos’è meno filmabile della semplice quotidianità? Senza eventi degni di nota, ma anzi concentrandosi sul suo scorrere e ripetersi. Tuttavia, continuando a osservare la quotidianità, non si può non notare che in Perfect Days iniziano ad emergere aspetti profondi, unici, piccoli e intimi tanto quanto grandi.
Si cominciano a notare i dettagli, ogni cosa prende un peso specifico diverso, ogni novità è più grande, più sentita (sia dal protagonista che dallo spettatore), il tempo scorre in maniera più percettibile e ogni sorriso ha più forza.
Ispirazioni dai grandi
A questo punto si comincia a vedere un certo richiamo a quell’Ozu di Viaggio a Tokyo, del Tardo Autunno e specialmente de Il Gusto del Sakè, tanto amato da Wenders. L’ispirazione si nota non solo nella scelta di ambientare il film in Giappone (decisione che anzi si deve ad altre cause), ma anche, e soprattutto, nel realismo e nella delicatezza che accomuna i due cineasti, nella volontà di mostrare la vita con totale sincerità, nel suo scorrere quieta.
“Adesso è adesso, un’altra volta è un’altra volta”, dice il protagonista Hirayama (Kōji Yakusho) alla nipote, in una delle scene chiave del film. Tuttavia, non sono solo le parole la bellezza di questa storia, che in verità sono ben poche, ma sono le immagini che raccontano e spiegano, che anzi mettono in dubbio. Dai solari tramonti agli onirici bianchi e neri, tutto in Perfect Days è curato con gentilezza, fino ai primi piani sul volto di Kōji Yakusho. Su questo attore, premiato a Cannes come Miglior Attore, è necessario scrivere qualche parola in più, vista la sua interpretazione a dir poco incredibile.
Il suo viso riesce ad essere espressivo mutando a malapena e usando pochissime parole per tutto il film; i suoi lievi sorrisi, gli occhi gentili e la posa composta ci fanno capire molto di lui, senza che egli si apra completamente allo spettatore. Si percepiscono i suoi pensieri ma non si comprendono in toto, anzi nel film si scopre poco o nulla di questo personaggio, si vedono solo i suoi modi di vivere, che sembrano renderlo contento.
Perfect Days un film che crede nelle immagini
È grande cinema, grandissimo cinema, perché c’è una fiducia totale nelle immagini, senza togliere spazio al sonoro o alle parole, che anzi sono sempre ben selezionate e inserite nei momenti giusti. Ma dove le parole tacciono arriva il racconto, l’osservare la vita di un uomo.
La cura che mette in quello che fa la vediamo in atto, nei bagni fatti da grandi architetti che lui con meticolosità pulisce. Le scene in silenzio sono quelle che raccontano di più, che anche si mettono in dubbio. Il sorriso gentile di Hirayama nasconde qualcosa, un passato che sappiamo solo essere passato. Una scelta registica di un maestro che conosce il grande cinema. Poiché nella vastità di film, storie, racconti, narrazioni verbose e didascaliche di oggi, scegliere questo silenzio vuol dire qualcosa.
Non che Perfect Days non sia didascalico, ma lo è per necessità, non perché vuole aprirsi allo spettatore. Lascia che sia quest’ultimo a comprendere, riuscendo a non complicargli la strada. In sintesi, Perfect Days è molto limpido in quello che vuole dire allo spettatore, lo spiega però mostrandolo, trattando con rispetto lo spettatore, senza arrecarsi l’autorità di dargli una visione corretta.
Una storia chiara che fa ragionare con semplicità
Il critico Giulio Sangiorgio, in un editoriale su FilmTv scrive di come Perfect Days sia un film: “Contro il suo tempo, Per un tempo differente. […] Un cinema che nulla c’entra con il ritmo, il passo veloce, l’euforia superficiale delle immagini contemporanee.” Evidenzia chiaramente come la calma e la cura siano qualcosa di talmente lontano dai ritmi richiesti oggi che, fare un film centrato su questo, diviene un atto quasi di resistenza.
Una visione che lo stesso Wenders, intervistato da Fabio Fazio nel programma Che tempo che fa, ha confermato:
“Insomma, Hirayama ci dà un esempio di come si può vivere in un modo diverso, ed è un esempio che incoraggia. Lui non vive per il futuro né per il passato, vive per il qui ed ora, ha una capacità di vivere l’istante che è meravigliosa.”
Se è vero che il grande cinema deve lasciare qualcosa, Perfect Days riesce a scavare e inserirsi nella profondità dello spettatore, senza smuoversi nonostante sia uscito in sala da più di un mese. Non si ha un angelo che scopre la bellezza della vita, ma un uomo semplice che ricorda come si può vivere sereni. Il successo di una storia così semplice è stato inaspettato, tra importanti incassi e la candidatura all’Oscar come Miglior Film Internazionale per il Giappone.
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