“In the Old Testament it said: in the beginning was the Word. Wrong! In the beginning was the Image.”
Così sentenzia Peter Greenaway durante un’intervista rilasciata nel 2016 ai Bafta: “il cinema tende ad essere troppo verbo-centrico” insiste, “quando invece dovrebbe basarsi tutto sulle immagini.”
Peter Greenaway ha festeggiato, il 5 aprile 2023, 81 anni di vita e quasi 60 d’attività, fra gli esordi nel mondo della pittura, le parentesi teatrali e letterarie, i progetti televisivi e il suo immenso contributo al cinema; per festeggiare questa ricorrenza e l’attesissima uscita del suo prossimo film Walking to Paris, ci è sembrato doveroso ricordare attraverso 4 film simbolici il lavoro di un regista che un po’ per innate idiosincrasie, un po’ per il suo stesso perverso elitarismo, tende a passare sempre in secondo piano rispetto ad altri autori suoi contemporanei.
Il calligrafismo de I Misteri del Giardino di Compton House
Il debutto narrativo avviene nel 1982 con I Misteri del Giardino di Compton House, preceduto nel 1980 da Le Cadute, adattamento filmico dell’omonimo libro scritto sempre da Greenaway, un complesso e geniale mockumentary fantascientifico.
In un 1600 ostentatamente simmetrico, seguiamo lo scabroso patto fra una dama ed un illustratore, disposto a ritrarre la proprietà della donna in cambio di favori sessuali: ma più i giorni passano e le tele prendono forma, più diventa evidente che il pittore ha accidentalmente incluso nelle sue riproduzioni una serie di dettagli che potrebbero essere la chiave per risolvere il mistero della sparizione del padrone di casa.
Siamo davanti al primo concreto esempio del calligrafismo che caratterizzerà l’intera carriera di Greenaway, un formalismo sfrenato e barocco spesso fine a sé stesso: il bello per il piacere del bello, “lo stile come sostanza”. Peter Greenaway è da sempre stato un uomo erudito che mai si è vergognato di poter risultare ermetico o addirittura incomprensibile ai meno preparati: i riferimenti pittorici (la pittura fiamminga, William Hogarth, i disegni tecnici di Leonardo ecc. ecc. ), cinematografici (Visconti, Fellini ecc. ecc.) e specialmente musicali, sui quali dopo spenderemo qualche parola in più, servono a trasportare lo spettatore in un mondo talmente arzigogolato e sfarzoso da risultare ipnotico.
Ma I Misteri del Giardino di Compton House non è soltanto un gioiello per i sensi: si tratta anche della prima complessa riflessione sull’arte messa in scena da Greenaway, che sceglie di approcciarsi immediatamente all’ambito che gli è più familiare, ovvero la pittura.
La camera inquadra il pennello che dipinge, ed è perciò lei stessa pennello al servizio del regista; le inquadrature altro non sono che tele contenenti altre tele, la colonna sonora parabola creativa di un artista libertino e controcorrente, capace di intercettare ciò che si nasconde dietro all’immagine altrimenti nuda e semplice, frigidamente tecnica come sarebbero i disegni della casa senza gli sprazzi di mistero evocati da dettagli fuori posto ed indizi di un possibile omicidio. E per questo l’artista è pericoloso ed imperdonabile, va punito con violenza, come il film stesso ci terrà a dimostrare.
L’arte meccanica e riproducibile in Lo Zoo di Venere
Precedendo di ben tre anni Cronenberg e il suo Inseparabili, Peter Greenaway dirige nel 1985 Lo Zoo di Venere, misurandosi con una storia fatta di dualità e imitazioni.
Due gemelli, siamesi alla nascita poi separati contro la loro volontà, lavorano in uno zoo nel quale svolgono ricerche: uno strano incidente automobilistico dalle connotazioni mitologiche – un cigno di nome Zeus sfonda il parabrezza dell’auto in corsa – priva entrambi i fratelli delle loro rispettive mogli, costringendoli a prendersi cura dell’unica sopravvissuta allo schianto, una lasciva donna di nome Alba. Col passare del tempo, i due non solo si innamorano di lei, ma cominciano a regredire al loro stato simbiotico.
Come per il film precedente, Greenaway si concentra sul creare meravigliose immagini, non più pittoriche quanto fotografiche, colme di una sconcertante freddezza; i colori si inscuriscono, l’illuminazione si fa chirurgica (oppure accecante, come quella di un flash), mentre le geometrie degli spazi si irrigidiscono ed aprono, diventando contemporaneamente più ampie eppure claustrofobiche.
Perché più claustrofobica è anche la storia in sé, più conturbante e scomoda: al centro di tutto ruota la passione dei due protagonisti per le loro ricerche etologiche, che con l’avanzare della trama evolverà in una malsana ossessione per il decadimento biologico dei corpi. In altre parole, i gemelli cominciano a documentare la putrescenza di animali via via più imponenti, passando da pesci a zebre, fotografando in time lapse il loro progressivo deteriorarsi.
La fotografia come metodo empirico. La fotografia che imita il cinema (il time lapse). La fotografia riproducibile e duplicabile, proprio come i nostri protagonisti sono uno il ritratto dell’altro. Rullini di immagini scientifiche che non riusciranno mai ad elevarsi ad arte, in quanto possono inquadrare solo muffa, vermi e decomposizione. Una profonda riflessione sull’unico medium artistico nato appunto per documentare prima che per esprimersi, l’unica forma d’arte a poter produrre due opere gemelle, due immagini virtualmente identiche.
Il Cuoco, il Ladro, sua Moglie e l’Amante: trangugiare arte senza assaporarla
Se la fotografia è l’arte meccanica per eccellenza, la cucina ottiene il primato in fatto di irrepetibilità: non vi sarà mai un piatto che assomigli a quello preparato la sera precedente. Peter Greenaway si occupa della questione nel 1989 con Il Cuoco, il Ladro, sua Moglie e l’Amante, primo e unico successo commerciale del regista, grazie anche alla presenza di attori come Helen Mirren, Michael Gambon e Tim Roth.
Assistiamo alle tirannie di Albert Spica, un odioso gangster la cui ignoranza è pari solo alla violenza che riserva per la moglie Georgina: ogni notte lui e la sua banda invadono l’elegante locale di un rinomato chef stravolgendo pace e menù. Le uniche due persone a continuare ad apprezzare l’alta cucina del posto sono proprio Georgina ed un misterioso signore che siede in disparte, leggendo libri in attesa della prima portata. Fra i due nasce l’amore: con l’aiuto dello chef cercano di sfuggire alle grinfie di Spica.
Peter Greenaway aggiunge, sempre sul palco dei Bafta:
“I became a film director because I was always disappointed that piantings didn’t have a soundtrack”
Ed è qui che è impossibile continuare a scrivere senza citare il suo più grande collaboratore: Michael Nyman, che ha composto tutte le colonne sonore dei capolavori di Greenaway, conferendo ai film in questione un tono baroccheggiante e solenne, assolutamente imprescindibile per portare in vita gli scorci in essi contenuti. Nyman utilizza come tema principale per Il Cuoco… una marcia incalzante ed inesorabile, che accompagni la rinnovata ricchezza delle immagini e dei colori (fra questo film e Lo Zoo di Venere, Greenaway dirige Il Ventre dell’Architetto e Giochi nell’Acqua che ne acuiscono ancora di più i tratti stilistici).
I movimenti di camera lenti e maestosi, seguono i personaggi in interni ed esterni nei quali l’illuminazione è ricercatamente artificiosa, al punto da codificare una determinata area del ristorante ad un preciso colore: il bagno è bianco, la sala rossa e la cucina verde. I costumi (di Jean-Paul Gaultier) cambiano di sfumatura con gli spostamenti di chi li indossa, certe volte anche nella stessa sequenza senza curarsi delle logiche del verosimile.
Eppure, proprio grazie a una messa in scena tanto raffinata, la violenza di Spica viene sottolineata come nauseante ed insopportabile: un uomo che si ingozza senza nemmeno sapere cosa stia masticando, senza comprendere l’unicità del pezzo, “suggerendo” modifiche al menù dello chef con la saccenteria di chi invece di assaporare i singoli bocconi inghiotte senza pensare. L’uomo modello di un mondo consumista, nel quale i fast food avranno sempre più successo della ricercata cucina dell’artista. Una riflessione non solo sull’ingordigia dei nostri tempi e le dinamiche di consumo dell’arte, ma anche una sorta di rivendicazione da parte di Greenaway stesso, che è sempre stato fiero di non essere diventato mainstream.
La tregua fra Parola ed Immagine ne L’Ultima Tempesta
Nel 1991 esce L’Ultima Tempesta, basato sulla tragedia di Shakespeare The Tempest, ultimo film musicato da Nyman.
Il vecchio Prospero siede solo in mezzo alla sua sconfinata biblioteca: riflette circondato dai libri mentre pianifica la vendetta contro il fratello Antonio, Duca di Milano, che lo ha spodestato con l’inganno.
L’Ultima Tempesta rappresenta in tutto e per tutto la maturità artistica di Peter Greenaway: scenografie più ricche che mai, sontuosi costumi degni di Danilo Donati e Dante Ferretti, una splendida fotografia dedita a giocare coi riflessi acquatici e la rielaborazione dei testi shakespeariani (tutti recitati da Prospero come narratore onnisciente e doppiatore degli altri personaggi) si amalgamano in un prodotto senza tempo o appartenenza alcuna, totalmente unico e a sé stante.
Ciò che più colpisce tuttavia, è l’equilibrio che Peter Greenaway riesce a trovare fra Immagine e Parola. Questo connubio, nato dalla necessità pratica di dover adattare per lo schermo una tragedia, si trasforma in un’occasione per riflettere sulla magnificenza della letteratura in toto: ne viene presa in considerazione la capacità evocativa, ma anche il conforto sensoriale, tattile, del tenere in mano un rugoso libro dalle pagine fruscianti, senza mai negare la potenza soverchiante dell’Immagine; implementando sperimentalismi degni della miglior video-arte come split screen, sovrapposizioni di filmati ed un ricercatissimo editing, da immagini innestate fra loro ne nascono di nuove, manipolate ed irripetibili.
Peter Greenaway: “and the Image was God”
Che il cinema stia vivendo un periodo di forte crisi è innegabile: le persone non solo sono poco interessate a vedere i film in sala, sono proprio poco interessate a vedere film. Le cause sono svariate ed affrontarle in questa sede sarebbe impossibile, ma forse aver brevemente parlato di 4 dei 70 film e corti diretti da Greenaway può aiutarci ad immaginare un cinema nuovo, sinceramente rinnovato: un cinema che si libri alto, lontano da quelle stesse fondamenta che per anni lo hanno sorretto, ma che ora sembrano tarparne le ali.
Un cinema che riesca una volta per tutte a ridimensionare il ruolo della narrazione in favore del culto dell’estetica. L’Immagine come Dio unico a cui dedicare ogni preghiera ed ogni altare. Il cinema di Peter Greenaway.
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