Dopo aver diretto l’acclamatissimo Vincenzo, Kim Hee-won torna dietro la macchina da presa, affiancata da Jeong Seo-kyung alla sceneggiatura, per Piccole Donne, la rivisitazione in chiave moderna del capolavoro omonimo di Louisa May Alcott. Che nessuno si azzardi a chiamarla remake: quasi inaspettatamente, la versione sudcoreana disponibile su Netflix, non è l’ennesima copia insignificante né uno dei tanti adattamenti forzati, ma riesce nell’intento di essere creativa senza distorcere un capolavoro.
La versione di Piccole Donne made in Korea
In-joo, In-kyung e In-hye (interpretate da Kim Go-eun, Nam Ji-hyun e Park Ji-hu) vivono da sempre in stato di povertà, sognando una vita che giorno dopo giorno si trasforma sempre più in utopia; come se non bastasse non vedono il loro padre da molto tempo, e quando anche la madre le abbandona portando con sé tutti i loro risparmi, la situazione sembra diventare insostenibile.
Finché all’improvviso Hwa-young, la migliore amica di In-joo, decide di togliersi la vita e le lascia due miliardi di won in contanti; la vita tanto desiderata non sembra più irraggiungibile agli occhi della maggiore delle sorelle Oh, se non fosse che dietro quel denaro si cela una marea di verità e segreti pericolosi non ancora pronti a vedere la luce.
Perché Piccole Donne è un falso remake ben riuscito
Rispetto all’amatissima versione originale, la trama di questo Piccole Donne è del tutto differente, ben più vicina al genere crime che al romance; e pur essendo una rivisitazione in chiave moderna, riesce a preservare le dinamiche relazionali così come i tratti caratteristici dei personaggi del romanzo, gli stessi tratti che li rendono amabili dal pubblico non importa in quante migliaia di trasposizioni siano mostrati. Forte delle sue solide fondamenta, la serie tralascia personaggi non funzionali al nuovo racconto e ne aggiunge di inediti decisamente meglio integrati, come il Choi Do-il interpretato da Wi Ha-joon e, fondamentalmente, tutti gli antagonisti.
Come ci si aspettava, Piccole Donne si concede qualche licenza poetica, ma a differenza di molte delle versioni precedenti lo fa disponendo di una buona ragione: il contesto, semplicemente, talmente diverso da quello in cui la storia originale si svolge da rendere necessaria (e più che giustificata) una massiccia opera di adattamento ai tempi che corrono. Nel mentre, l’essenza dei protagonisti rimane immutata non essendo soggetta alla storia o alla circostanza e rimanendo il vincolo indissolubile col capolavoro letterario della Alcott.
Non si tratta, ovviamente, di un K-drama senza difetti. Un paio di situazioni tendenti all’inverosimile, azioni che nascondono forti motivazioni ma dispiegate in modo forse troppo romanzesco, potrebbero essere fonte di insoddisfazione per un pubblico che di serie crime/thriller ne ha viste a dovere; lo stesso vale per la soluzione conclusiva, forse più tendente al delirante che all’effetto wow.
Ciononostante Piccole Donne rimane una serie adatta al binge-watching, facendosi anche carico di un messaggio che al giorno d’oggi tutti dovremmo riuscire a cogliere, e che buona parte del pubblico ha già colto e vuole ascoltare: la libertà, checché se ne dica, è sia materiale che immateriale, spesso purtroppo la si può comprare, e ancora più spesso comincia con la separazione dalle persone che ne restringono confini e modalità.
L’eredità di Louisa May Alcott sfruttata a dovere
L’adattamento sudcoreano di Piccole Donne è un ottimo esempio di scrittura intelligente; quella scrittura che prende spunto e valorizza, separata da una linea sottilissima dall’operazione di copiatura che conduce alla realizzazione di remake tutti uguali, quasi indistinguibili se per i volti e destinati a crollare di fronte ai pochi ben realizzati (nel caso del classico di Louisa May Alcott, la più recente versione diretta da Greta Gerwig, del 1994 con protagonista Winona Rider, e l’intramontabile del 1949 con Elizabeth Taylor).
Questa versione non si lascia categorizzare perché non si dispone degli strumenti per farlo, ed evita così di essere additata come mera copia o come ennesimo tentativo di innovazione riuscito male. Il K-drama di Kim Hee-won è fatto in modo da giustificare ogni modifica alle singole storyline, affidandosi alla credibilità di ciò che si narra e al diverso contesto storico, sociale ed economico, che inevitabilmente influenza le circostanze della vita conducendo a risultati differenti da quelli per cui la Alcott aveva optato a suo tempo.
Piccole Donne insegna, nel suo piccolo, come realizzare un prodotto non originale ma innovativo, scomponendo la fonte di ispirazione ma preservandone l’anima dall’inizio alla fine, in modo che sia costantemente riconoscibile; finalmente, la prova lampante di come adattare in chiave moderna implichi inevitabilmente un compromesso e una serie di scelte, scelte opinabili ma mai incoerenti o tali da snaturare la storia originale.
Di certo non ci troviamo davanti al K-drama dell’anno. Lo si può accusare di non aver soddisfatto le aspettative, ma non di aver fallito nell’onorare un capolavoro cogliendone da un lato la vera essenza, e dimostrando dall’altro di averne compreso i valori, interiorizzato i contenuti, rispettarlo abbastanza da sapere quando lo si può e non lo si può toccare.
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