È una delle storie più longeve della letteratura fantasy: rimaneggiata, mai del tutto stravolta, la favola collodiana di Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino (1883), all’alba dei suoi quasi centoquarant’anni torna sullo schermo – grande e piccolo – nelle mani di Guillermo Del Toro, a pochi mesi di distanza dal Pinocchio di Zemeckis. Disponibile dal 4 dicembre in alcune sale selezionate, e dal 9 dicembre su Netflix, il viaggio del regista messicano vive nella perfezione minuziosa della sua messa in scena, forte della collaborazione con l’esordiente Mark Gustafson nella realizzazione di una pellicola girata in stop-motion.
Lo spazio è materico in ogni dettaglio studiato al millimetro: dal Cristo scolpito sulla croce alle pareti della Chiesa, dai volti solcati dei personaggi alle lacrime di Geppetto, gli animali, le piante, il legno intagliato, il buco nel petto di Pinocchio, la pigna di Carlo, Pinocchio è un bassorilievo da manuale di cinema e fotografia. Un progetto di lunga gestazione, dall’idea nel 2008 ai rallentamenti dovuti all’alto budget richiesto dall’animazione a passo uno, che trova la via della luce dieci anni dopo, quando Netflix decide di investire sul progetto e ne acquista i diritti.
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La storia, alla nona trasposizione in live action e alla decima versione animata, trova una linfa inedita nella visione del regista messicano: ambientato nell’Italia fascista, il dramma umano di Geppetto si riconcilia con l’idea di un tempo ineluttabile, segnato dal dolore e dalla perdita, attraverso personaggi che si fanno mentori nell’esemplarità del loro viaggio interiore. Primi tra tutti, il Sebastian di Ewan McGregor e la Fata Turchina di Tilda Swinton: il grillo che vive nel suo cuore, la Chimera che lo “risveglia”.
Pinocchio di Guillermo Del Toro è un film che non abbiamo mai visto
Annebbiata e intorpidita dai bombardamenti, l’Italia sotto l’egida fascista strappa via a Geppetto il suo unico figlio, Carlo, che rimane ucciso nell’esplosione della Chiesa della cittadella. Sconvolto e senza meta, il falegname annega nei vizi dell’alcol nel tentativo di dimenticare la dolorosa perdita, finché, in uno slancio di odio e risentimento, armato di scalpello, abbozza un burattino dal tronco di un albero. Storto e malconcio, frutto della rabbia, il burattino prende vita per volontà della Chimera (Tilda Swinton), un essere mitologico – simile alla fata, nella sua rivisitazione in chiave contemporanea – che affida al grillo parlante (Ewan McGregor), inquilino del suo “cuore”, il compito di affiancarlo e guidarlo nel percorso verso il bimbo vero che sarà.
Geppetto sfrutta la vitalità di Pinocchio per colmare l’assenza di Carlo, e non perde occasione per sottolineare al burattino di legno la differenza con il figlio vero. La presenza assidua del grillo non trattiene l’esuberanza curiosa di Pinocchio, che vuole conoscere il nome di ogni cosa, di ogni luogo in cui arriva, ciondolando, per la prima volta; piuttosto si scontra con le mire di antagonisti che, se nel classico collodiano vivevano in caratterizzazioni distinte, qui si sommano nell’acredine di figure sintetiche a più voci che, di Pinocchio, bramano l’immortalità.
Così il burattino diventa ora arma in mano ai fascisti, ora attrazione defaticante di un circo in decadimento, persistendo nel deridere il pericolo senza misure, a volto aperto. Oltre la guida di un padre, Pinocchio esiste nella capacità di discernere in autonomia giusto e sbagliato, nel valore del suo libero arbitrio.
Del Toro uccide Pinocchio, lo fa umano oltre il legno, transitorio e sacrificale, a metà tra il mondo dei vivi e quello dei morti (gotico e grottesco, nel pieno stile del regista), ostile ai vertici, ribelle e sovversivo, incapace di trattenersi lungo i margini senza eccedere: genuino e curioso, nel suo infantile paragonarsi a Cristo ne ricorda l’umanità, e di questa si appropria nel sacrificio. Pinocchio non diventa bambino nella bontà delle sue azioni, ma nella loro verità, non diventa umano nel saper formulare domande, ma nella consapevolezza dell’ineluttabilità delle risposte.
Un musical tragico: la Chimera rivela il segreto del tempo, il grillo la dignità del fallimento
Pinocchio è un musical drammatico, un intreccio sul perturbante che si aggrappa agli occhi ancor prima di procedere nella visione. Basta un’immagine per innamorarsi di un ciocco di legno, della sua storia un attimo prima che si realizzi, dell’imprevisto del suo genio, mal riposto in un corpo rozzo e poco levigato, goffo e pedante. Nell’estasi del regista messicano l’errore convenzionale è un dono, è la possibilità di lanciarsi oltre la piattezza delle condizioni imposte e morire più volte, sprofondare negli abissi più funerei, è l’occasione di risalire la corrente nell’accettazione di ciò che non possiamo cambiare.
“Tempus fugit”, scriveva Virgilio nelle Georgiche: non è un caso se questa verità latente si fa manifesta per volontà dei personaggi-guida di Pinocchio, che agiscono da novelli Virgilio nella Selva Oscura della sua transizione umana.
Il fallimento è un’attestazione di vita, nel coraggio che richiede ogni tentativo ancora ignaro del successo. Le mani di McHale, in addizione a quelle del regista, incoraggiano l’unicità dei percorsi di vita, i vicoli sbagliati, le svolte impreviste, la sfiducia nel proprio dono e la fissità tragica dei non-luoghi in cui ci costringiamo per paura dell’oltre. È tutto giusto, tutto necessario, tutto degno di essere trasportato faticosamente su per ogni gradino. Sebastian, a casa nel cuore di Pinocchio, vive nell’attesa della sua luce:
“Il meglio che posso fare, è meglio di quanto chiunque altro possa fare”.
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