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Primadonna copertina

Primadonna, il primo no è già emancipazione

8 minuti di lettura

Il primo no di una donna è uno spunto semplice per parlare di emancipazione femminile. Come semplice, e classico, è l’edificio narrativo in cui è ospitata la storia (vera) di Franca Viola. Per il suo esordio Marta Savina ritorna a lei, al precedente cortometraggio (Viola, Franca, 2017) e alla stessa attrice protagonista (Claudia Gusmano). Con Primadonna si riappropria della persona, ragionando sul personaggio ed espandendo lo spazio della vicenda in un racconto che solleva riflessioni e parla, ancora una volta, di libertà, coraggio e rivendicazione.

Claudia Gusmano in Primadonna

Uscito in sala nel 2023 e ora disponibile su Sky, Primadonna è una storia di difesa della propria integrità, tutelata da un’ostinazione che quasi senza intenzione diventa universale, fertilizzando il cammino di una rivoluzione. Quanto documentato da Primadonna è un fatto privato, è il rifiuto di una giovane donna a un matrimonio riparatore, dopo esser stata violentata.

Quanto lasciato allo spettatore è invece un pensiero critico, che trae vantaggio dall’immediatezza espressiva e si interroga sul sacrificio, lo sconforto e la necessità di usare la propria voce. La prima donna di cui ci parla Marta Savina ha raccontato la sua storia per evitare che lo facessero gli altri. Quella storia è diventata consapevolezza, vent’anni dopo legge; oggi uno spunto semplice, un invito a continuare a rivendicare l’indispensabilità dei primi no.

Primadonna tra Chiesa, mafia e patriarcato

Claudia Gusmano e Fabrizio Ferracane in una scena di Primadonna

Lia Crimi (Claudia Gusmano) ci viene presentata con un guizzo negli occhi che ha lo spirito della sua giovinezza. Vive nella Sicilia degli anni ’60, quella asservita a una cieca religiosità e a una pigra condotta di maschilista morale. Sua madre (Manuela Ventura) si preoccupa dello sguardo della comunità, ma alla ragazza non interessa attenersi al costume.

Neanche al padre (Fabrizio Ferracane), si direbbe, quando sceglie di soprassedere alle singolari predilezioni di una figlia che desidera lavorare la terra insieme a lui. Sempre il padre, però, attenziona con criticità l’intesa che Lia sembra avere con Lorenzo Musicò (Dario Aita), figlio del boss del paese e della malavita che lo tiene in pugno. Quello di Lia è un microcosmo felice, modulato sulla circolarità di un amore sincero che si reinventa sempre, e si protegge.

Gusmano riveste di spontaneità il suo personaggio, caldeggiando un ritratto di donna pungente, vivace e piena di ambizioni. Che si scontrano con l’impermeabilità della tradizione, la collusione delle istituzioni e la stigmatizzazione di un coraggio prematuro per il tempo. Quando dall’atteggiamento di Lorenzo iniziano ad emergere i sintomi della violenza, del controllo e dell’intimidazione, Lia si tira indietro. Al rifiuto il ragazzo reagisce con la forza, sequestrandola, violentandola e obbligandola, di fatto, a un matrimonio riparatore che le riqualifichi l’onore.

Primadonna, il privato che diventa pubblico e riscrive i diritti

Primadonna

Negli anni del delitto d’onore, la pratica del matrimonio riparatore non era che un piccolo e sicuro recinto in cui circoscrivere la protezione della propria e altrui reputazione, discolpando l’aggressore e duplicando l’onta sulle donne abusate. I primi segnali del collasso arrivarono proprio con la vicenda di Franca Viola, da cui Primadonna trae ispirazione. Per raccontare la sua storia, Marta Savina sceglie di moltiplicarne i punti di osservazione, discostandosi da una pedissequa fattualità e dedicandosi all’esplorazione di una più estesa lotta all’ingiustizia e alla discriminazione.

Quindi, nel momento in cui Lia decide di opporsi al matrimonio riparatore e di portare in tribunale il suo stupratore, Primadonna le modella intorno un ambiente plastico di personalità. Tra queste, quella del suo avvocato (Francesco Colella), allontanato dalla società per il proprio orientamento sessuale, e quella di una prostituta (Thony), su cui la narrazione accenna a una più stratificata ridefinizione di genere, poi disattesa a favore di una semplificata solidarietà femminile.

Primadonna riunisce gli ultimi attorno alla casa di Lia, associandone l’emarginazione nel corso della lenta attesa del processo, che diventa il tempo della presa di coscienza, della ribellione e della riappropriazione di uno sguardo personale, riscattato dal pregiudizio della comunità. Comunità che accoglie e acclama i Musicò nel centro delle piazze, la stessa che isola e intima i Crimi di non farsi vedere in giro. Loro rispondo riformulando le tradizioni del quotidiano e traendo forza dallo svantaggio che li lega, a favore di un amore che cammina controsenso alla violenza subita e giornalmente ripudiata.

Ripudiare con consapevolezza, in Primadonna, significa privarsi di qualcosa. Il film indugia a lungo sull’inevitabile senso di sconforto richiesto a una contesa impossibile e necessaria, riversato su Lia quanto sulla sua famiglia, progressivamente isolata e continuamente minacciata dalla prevaricazione delle azioni dei Musicò. Indugia sull’inviolabile e personale diritto alla scelta di Lia, sul rischio di un’iniqua colpevolizzazione, sul privato che diventa pubblico e se ne assume le responsabilità. Lo fa fino all’ultimo, fino all’agrodolce finale di una causa vinta a caro prezzo. A chiarire che quello che resta, nelle vite di ciascuno di loro, è soprattutto il sacrificio delle libertà perse.

Quello che resta alla società, invece, è il seme del cambiamento. La legge arriverà nel 1981, abolirà la pratica assieme al delitto d’onore, trasformando in diritto il primo grido di resistenza della donna, la prima falla di una granitica cultura patriarcale. A essere illuminata è di nuovo l’eroicità del quotidiano, quella della Delia di C’è ancora domani, quella cui s’interessa anche Primadonna, anteponendo la chiarezza del messaggio all’analisi delle sue complessità. Ne ricava un’andatura narrativa che presta il fianco a semplificazioni  ma si sdebita con interpretazioni e colonna sonora, contornate da una pulizia registica che si muove in camera fissa e trasparenza, di campi medi in primi piani, senza affondi espressivi e con un’essenzialità linguistica che favorisce l’accessibilità.

Marta Savina pensa un film delicato e non insistito, diretto ma non didascalico; non privo di difetti, ma autentico nelle intenzioni. Quanto basta, insomma, per arrivare lì dove si era prefissato: nelle parole di Franca Viola.

Io non sono proprietà di nessuno, nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto, l’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce.

Franca Viola, 1966


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Laureata in Cinema e Comunicazione. Perennemente sedotta dalla necessità di espressione, comprensione e divulgazione di ogni forma comunicativa. Della realtà mi piace conoscere la mente, il modo in cui osserva e racconta le sue relazioni umane. Del cinema mi piace l’ascolto della sua sincerità, riflesso enfatico di tutte le menti che lo creano. Di entrambi coltivo l’empatia, la lente con cui vivere e crescere nelle sensibilità ed esperienze degli altri

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