Quentin Jerome Tarantino nasce il 27 marzo del ’63 a Knoxville, non termina la scuola superiore e non frequenta scuole di cinema. In compenso però si forma autonomamente lavorando come commesso nel Manhattan Beach Video Archives, un videonoleggio di Los Angeles, punto di raccordo tra la cultura cinematografica più prorompente e il talento più impaziente.
Raggiunto il successo di critica nel 1992 con Le Iene, la consacrazione nell’Olimpo dei cineasti più influenti arriva con Pulp Fiction, vincitore della statuetta alla miglior sceneggiatura originale insieme a Roger Avary, conosciuto proprio nel videonoleggio in cui lavorava.
In ventinove anni di carriera da regista ha assistito più volte alla svalutazione della sua produzione, al ridimensionamento del suo talento e alle critiche di chi, rifuggendo la venerazione della sua icona, lo accusava di non aver creato nulla e di essersi appropriato del passato di altri.
Resiste al tempo questo suo stile, autentico quanto citazionista, in grado di attraversare le ere caricando sulle spalle il peso di sfide sempre più ambiziose. Il tempo non esiste e non sussiste, quando nel buio della sala 180 minuti sembrano avere la stessa durata di un intervallo scolastico. Questo perché Tarantino è scuola e ricreazione, un labor limae didattico nelle sceneggiature e nelle inquadrature cesellate al millimetro ed estatico nei momenti di sanguinosa violenza che restituiscono pace interiore agli amanti del genere.
“Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma“. Quentin Tarantino è un Lavoisier postmoderno che ha tradotto la legge di conservazione della massa traslandola da un concetto chimico ad un significato universalmente umano: conservare la massa – intesa nel suo senso sociale -intrattenerla, istruirla e conquistarla. Tarantino respira sulle spalle dei giganti e, se come base ha la loro altezza, contro ogni postulato matematico l’area del suo talento non si divide per due ma si moltiplica esponenzialmente raggiungendo vette e piantando bandiere.
Il criterio inconfondibile con cui rielabora a suo modo – che ormai è anche il nostro – qualcosa di già scritto, già visto, già compreso ne fa qualcosa di totalmente diverso, a cui si deve dedicare necessariamente più attenzione del solito: Tarantino è l’emblema della re-visione, del sentimento viscerale che convince il cinefilo, ma non solo, a riprodurre incessantemente una sua creatura non tanto per comprenderla, quanto per apprezzarne più e più volte ogni sfumatura: dall’estetica fotografica allo stile impeccabile della regia, dalla volubilità temporale delle sue scatole cinesi alla profonda caratterizzazione dei personaggi, su carta e su schermo.
Per i 58 anni del regista ripercorriamo tre grandi titoli della sua filmografia, quelli più controversi, meno apprezzati, miscreduti da quella “mentalità cinefila degli ultimi trent’anni che spesso va con il pilota automatico, basandosi su una codifica dei generi che tutti hanno presente ma ben poco conoscono” (l’enciclopedico Michele Innocenti, ndr).
Jackie Brown: il progetto non originale (ma originale) di Tarantino
Cinque anni dopo il successo de Le Iene Tarantino dirige Jackie Brown (1997), l’unico progetto non originale ma originale della filmografia del regista. Demiurgo di personaggi violenti, irascibili e sanguinari nella vita reale Quentin è un fervido sostenitore della pax: il reato più sconvolgente commesso dal regista infatti è il furto, in giovane età, di un libro scovato tra gli scaffali di un supermarket. Non a caso, un libro di Elmore Leonard, uno tra gli scrittori noir più influenti di fine secolo scorso e autore di Rum Punch, base letteraria di Jackie Brown.
Jackie Brown è una hostess di volo che per conto del mercante d'armi Ordell Robbie (Samuel L. Jackson) contrabbanda denaro per arrotondare lo stipendio. Fermata dagli agenti della polizia Ray (Michael Keaton) e Mark (Michael Bowen) Jackie si vede costretta a condurre un doppio, triplo gioco ai danni di Ordell per evitare la prigione. Ad aiutare Jackie in questa corsa contro il tempo c'è il garante di cauzioni Max Cherry (Robert Forster) che, infatuato della donna, si lascia coinvolgere nella faccenda.
Tarantino costruisce il suo terzo film con una cifra stilistica rivisitata in chiave più matura, con un’ossessione meno voyeuristica della violenza e dei personaggi indagati da una lente più equilibrata e più attenta al lato umano e sentimentale. Eppure, nonostante questa apparente conversione alla proporzione, Jackie Brown è un’ode alla sua maniera con tutti gli elementi tipici del marchio di fabbrica alla Tarantino: dalla trunk shot (la ripresa dall’interno del bagagliaio o del cofano) alla perseverante inquadratura dei piedi di Melanie (Bridget Fonda). Un omaggio alla blaxploitation, il genere che negli Stati Uniti degli anni ’70 prendeva gli afroamericani come pubblico di riferimento: ad aprire le danze è la voce di Bobby Womack che sulle note di Across 110 Street accompagna i titoli di testa e di coda, canticchiata da Jackie (Pam Grier) mentre viaggia solitaria verso la Spagna.
Tarantino dondola nella culla dei b-movie, affina la sua cultura cinematografica e propone un film dilatato, realistico, aggiungendo pathos in sottrazione: il percorso tracciato, a eccezione dell’unica sovrapposizione temporale in tre fasi verso l’epilogo, è lineare, le morti a sorpresa, alcune fuori campo, accrescono il dubbio lasciando uno spiraglio all’immaginazione di chi osserva, e la costruzione degli innamorati – veri protagonisti della storia – offre l’occasione per un’indagine approfondita dei sentimenti umani (forse quella più trasparente nella retorica tarantiniana) alla ricerca di un antidoto alla senilità e alla mancanza di prospettive.
Grindhouse – A prova di morte: “A White-Hot Juggernaut At 200 Miles Per Hour!”
A detta dello stesso regista Grindhouse: Death Proof (A prova di morte) fu un prevedibile flop.
“Con Grindhouse io e Robert Rodriguez abbiamo pensato che le persone conoscessero un po’ di più il concetto di film d’exploitation. Invece non era affatto così. Non avevano idea di che cazzo stessero guardando! Non significava nulla per loro.”
Il progetto nato bipartito – A prova di morte di Quentin Tarantino e Planet Terror di Robert Rodriguez – puntava alla (ri)valorizzazione del film d’exploitation, un omaggio ai film low budget degli anni Settanta come Punto zero, Convoy – Trincea d’asfalto, Zozza Mary, pazzo Gary rivisti in chiave slasher ma senza le caratteristiche convenzionali del genere.
Jungle Julia (Sydney Tamiia Poitier), nota DJ di Austin (Texas), e le sue migliori amiche Arlene (Vanessa Ferlito) e Shanna vengono prese di mira dall'ex stuntman in pensione Stuntman Mike (Kurt Russell) che a bordo della sua Chevrolet Nova SS. le segue nella follia notturna tra locali e lapdance per poi ucciderle violentemente in uno scontro con la sua vettura truccata. Quattordici mesi dopo Stuntman Mike torna in circolazione con la sua Dodge Charger e la sua attenzione ricade su un gruppo di ragazze che lavorano nel cinema: la truccatrice/hairstylist Abernathy (Rosario Dawson), le stuntwoman Kim (Tracie Thoms) e Zoë (Zoë Bell) e l'attrice Lee (Mary Elizabeth Winstead). Da carnefice Mike diventa "l'inseguito" fino alla resa dei conti finale.
Tarantino iniziò a lavorare alla sceneggiatura di A prova di morte quando Robert Rodriguez aveva già iniziato le riprese di Planet Terror. L’intento del regista era quello di dirigere uno slasher su uno stuntman in pensione ossessionato dalle ragazze: un personaggio carismatico, attraente, dal passato glorioso animato dal più violento sadismo che prova eccitamento sessuale nell’uccidere le giovani a bordo delle sue potenti macchine truccate.
“Capii di non poter fare un semplice slasher, perché con l’eccezione degli women in prison, non c’è nessun altro genere più rigido. E se cerchi di cambiarne le regole, il film non funziona più. La mia versione è questa: assomiglia ad uno slasher, ma non lo è”.
La sceneggiatura di Grindhouse: A prova di morte sembra debole, se confrontata agli esercizi di stile tipicamente tarantiniani. Eppure la consistenza del sottotesto è data dai suoi “dialoghi delle Amazzoni“, riferimenti e discorsi puramente femminili raccolti dal regista “recependo, ricordando e assemblando dopo essere uscito con donne per anni“.
A “compensare” quello che sembra essere un testo apparentemente più vuoto e meno eclatante del resto della sua produzione, Tarantino lavora come direttore della fotografia e adotta lo stile antiquato proprio dei film d’exploitation degli anni ’70: zoom improvvisi, stacchi, profondità di campo che complicano la scena e piani sequenza di 8 minuti.
“Non venitemi a parlare di Matrix, è tutta roba finta, senza anima. Il motivo è questo: nei film d’azione moderni, ogni volta che la scena riesce bene, ci sono dodici telecamere pronte a riprendere da dodici angolazioni diverse, per creare più entusiasmo se la scena fosse venuta male: io non voglio fare così. Secondo me, l’unica cosa importante è l’azione. Se poi viene ripresa da un’inquadratura o da dodici non importa, l’importante è rendere adrenalinico ed interessante il momento per il pubblico”
In Grindhouse: A prova di morte c’è tutta la poetica di Tarantino, trunk shot e piani sequenza compresi. C’è venerazione feticistica per la donna, violenta bramosìa, equa ricombinazione dei generi secondo un criterio imparziale che loda e punisce indipendentemente dal sesso. E ancora l’esaltazione dell’adrenalina più sfrenata, il citazionismo nostalgico, la consapevolezza di poter riesumare iconicamente un genere.
Chi non apprezza Grindhouse non ama Tarantino. Chi non riconosce Tarantino in Grindhouse non è un tarantiniano doc.
The Hateful Eight: lo status gratiae di Quentin Tarantino
Nei contenuti extra del blu-ray di The Hateful Eight Tim Roth (Il piccolo uomo) sostiene con cognizione di causa l’assunzione di Tarantino ad uno stato di grazia: “È la stessa persona ma ora possiede quel senso di autorevolezza ricercato per molto tempo“.
The Hateful Eight (2015) è l’ottavo film scritto e diretto da Quentin Tarantino: una visione estatica che con i suoi 187 minuti svetta incontrastata, per durata, sulle pellicole precedenti. Il carattere particolare di Quentin è cosa nota, specialmente quando le cose sembrano complicarsi. All’inizio del 2014 il film era stato annullato per via della diffusione illecita del copione su Internet. Si dice che sia stato proprio Samuel L. Jackson, durante una lettura dal vivo all’Ace Hotel di Los Angeles, a far riflettere il regista e a convincerlo a rielaborare la sceneggiatura.
Nel Teatro 5 degli Studi di Cinecittà, in prossimità dell’anteprima italiana del film, Tarantino ripercorreva la propria carriera rimarcando la sua sacra predilezione per i personaggi enigmatici, volubili, mendaci: figure malleabili capaci di fingersi qualcun’altro senza sforzo. Questa tendenza è estremizzata nell’ottavo film di Tarantino, dichiaratamente ispirato a La Cosa di John Carpenter e colpito da innumerevoli critiche: accuse di razzismo, prorompente misoginia e flemmatica lentezza. Secondo Michael Madsen, che nella pellicola interpreta Joe Gage, “I film di Tarantino risolvono più problemi di quelli che creano, sia dal punto di vista politico che da quello dell’intrattenimento”.
La politicità del film non è stata una premessa, ma una conseguenza. Prendendo spunto dall’analogia della situazione politica contemporanea tra democratici e repubblicani i personaggi di Tarantino diventano portatori sani di realtà, bandiere di fazioni differenti impegnate in una discussione forsennata sul com’era la vita dopo la Guerra Civile.
Poco dopo la fine della guerra civile americana il Wyoming, congelato da una gelida tormenta, si fa terreno di scontro di otto personaggi. Il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell) scorta la criminale Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh) verso Red Rock, dove la donna sarà giustiziata. Nel tragitto la diligenza si imbatte nel Maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), ex soldato dell’Unione, e poco dopo in Chris Mannix (Walton Goggins) nuovo sceriffo di Red Rock. Colpiti dalla bufera e impossibilitati a proseguire trovano riparo nell’emporio di Minnie, dove ad attenderli ci sono altri quattro uomini dalla dubbia identità.
L’ottavo film di Tarantino è una rivisitazione in chiave western del suo Le Iene, una summa eccellente della sua poetica in cui il regista riesce a mantenersi intatto rinnovandosi. Oltre alla potenza visiva suscitata dal contesto, i 187 minuti di pellicola sono bipartiti: se nella prima parte l’emporio sembra trasformarsi in un teatro animato da botta e risposta divulgativi, necessari per presentare e approfondire ciascun personaggio, la seconda parte tira fuori le unghie, esplodendo in un susseguirsi di sangue e violenza che fanno tirare un sospiro di sollievo ai fan con il fetish delle rivoltelle.
C’è tanto, tutto del Quentin consueto e amato in questo, così come nella prima parte della pellicola: sono innumerevoli le citazioni, da Ombre Rosse a Sentieri Selvaggi (la frase That’ll be the day pronunciata da Kurt Russell come John Wayne), ma anche la dimensione sanguinaria de Il Grande Silenzio di Sergio Corbucci e la tensione enigmatica firmata Agatha Christie da Dieci Piccoli Indiani a Trappola per Topi.
Questa è la vera morale tarantiniana, con uno sguardo rivolto a Pirandello e alle sue identità vane o plurime: homo homini lupus, siamo ferro e sangue per l’altro, in una società che simula l’idillio nascondendo i morti. The Hateful Eight è strettamente connesso alla realtà, e accosta in maniera spregiudicata ma pertinentissima l’America degli ultimi dieci anni, la cui sorte resiste malconcia sotto il giogo di uomini egoisti dominati dall’amoralità.
Nessuno è davvero innocente in questo teatro, sociale e politico, dove il razzismo regna sovrano in una catena di soprusi e la giustizia universale cede il posto all’odio personale. È tutto condensato qui l’amore viscerale di Tarantino per il nostro Sergio Leone. Sono moltissime le similitudini con la filmografia del regista, ma ancor di più ad accomunarli è il rispetto del pubblico: non c’è mai nulla che sfiori la superficialità, c’è sempre qualcosa che va oltre il semplice schermo.
A colpire nel caso di The Hateful Eight è la varietà dei personaggi della storia, la loro provenienza, le loro intenzioni. “Se metto insieme A e B cosa posso ottenere? Non voglio C, voglio ciò che si può ipoteticamente ottenere” dice Bruce Dern (Gen. Sanford Smithers nel film) riferendosi al regista.
Per ogni film Tarantino scrive le sue circostanze e dà agli attori potere creativo, con il suo entusiasmo trasforma l’impossibile in potenzialmente possibile, calibra le capacità di ognuno e stimola gli attori ad arricchire i personaggi ingaggiando con loro una sfida a livello interpretativo e intellettuale. Il film è stato provato come fosse un’opera teatrale: questo ha corroborato il legame e la complicità dei protagonisti coinvolgendoli in una danza corale del tutto naturale.
Parte della critica ha espresso perplessità circa il modo brutale con il quale viene trattato il personaggio di Daisy Domergue, più volte vessata, malmenata, insultata e in extremis impiccata. Matt Zoller Seitz del sito RogerEbert.com ha rimarcato l’aberrante scelta di indulgere sulla lenta agonia e morte di Daisy con una fascinazione quasi pornografica. Invece la Daisy di Jennifer Jason Leigh ha sfruttato tutte le potenzialità del suo ruolo centrale: è sprezzante del pericolo, animalesca, ha valori e punti deboli e soprattutto merita di essere punita indipendentemente dal suo sesso.
L’accusa di misoginia è sfrontata, buonista, sterile: non è femminista considerare l’assoluzione di una donna perché tale. Daisy è un’assassina, violentemente percossa fino all’estremo atto finale in virtù della sua crudeltà.
La colonna sonora di The Hateful Eight scritta in verticale
The Hateful Eight ha una personalità che non può vantare nessun altro lavoro di Tarantino, e secondo la stessa dichiarazione del regista, questo è dovuto alla personalità organica della colonna sonora, che non è tanto da film western ma da film horror.
Nella fase iniziale di lavorazione del film il premio Oscar Ennio Morricone (il compositore preferito di Quentin), per via di impegni presi precedentemente, avrebbe dovuto occuparsi esclusivamente della stesura del tema. Preso dall’ispirazione iniziò a comporre altre tracce, lavorando in verticale sul pentagramma per una visione d’insieme di tutto il comparto strumentale. Il fatto che Tarantino non pretendesse nulla da lui lasciava libero il Maestro di creare e comporre secondo il proprio intuito.
Roadshow e Panavision: tutta la nostalgia di Tarantino in 70mm
La domanda che hanno spesso rivolto a Tarantino circa la sua decisione di girare il film in pellicola UltraPanavision 70mm è stata: “Se hai intenzione di girare un film dove a dominare siano gli esterni, i grandi paesaggi allora ha un senso girare in 70mm. Ma se è per lo più girato in interni perché usarlo?“.
Eppure Tarantino gira in 70mm già dal magazzino d’esordio de Le Iene e, valicando il paradosso, ritiene che sia più intimo di qualsiasi altro formato. Ti permette di entrare nella narrazione, di avvicinare i personaggi e condividere la loro sfera personale.
Per questo motivo The Hateful Eight è stato presentato in versione roadshow in 70 mm: un tempo andare al cinema era un evento cinematografico in grande stile per il quale bisognava mettersi in tiro; c’erano posti assegnati, un programma, un’ouverture musicale e un intervallo. Il roadshow nasce a fine anni ’50, si intensifica negli anni Sessanta e nel 2015 riaffiora nostalgicamente per ricordare alle persone che il cinema è un luogo sacro da rispettare.
Girare in 70mm significa glorificare l’opera potenziandone esponenzialmente le immagini, non solo negli esterni ma soprattutto nelle scene girate all’interno dell’emporio che godono della definizione dei colori. Con 24 fotogrammi al secondo si possono cogliere nitidamente tutti i dettagli.
La nostalgia di Quentin Tarantino omaggia i suoi ricordi, la sua memoria cinefila, quel Ben-Hur visto nel formato originale UltraPanavision. Le lenti Panavision non venivano usate dai tempi del film Khartoum (1966) con Laurence Olivier e Charlton Heston. Robert Richardson, direttore della fotografia, ha portato con sé le lenti a Telluride, luogo delle riprese, e dopo i test effettuati sulla base di inserti, primi piani, campi lunghi e volti Quentin ha preso la sua decisione. Per far sì che durassero per tutte le riprese hanno dovuto adattare le lenti alle macchine da presa digitali e renderle compatibili con il loro sistema.
La metà delle lenti impiegate non vedeva la luce dal ’65: The Hateful Eight è stato l’occasione per la Panavision di girare un film per i posteri: un’esperienza visiva eccezionale che ne legittima lo status.
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