“Qui rido io è l’immaginario romanzo di Eduardo Scarpetta e della sua tribù”. Così Mario Martone, visionario regista dal piglio teatrale, descrive il suo film in concorso alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia. Come protagonista il colossale Toni Servillo, presente anche in altre due pellicole del Festival – È stata la mano di Dio, Ariaferma – nelle vesti del commediografo più celebre del panorama italiano, figlio di Napoli e della sua purezza popolare. Il capoluogo campano, incorniciato dagli evocativi scenari teatrali di inizio ‘900, accoglie la storia di una famiglia la cui libertà appartiene solo al palcoscenico. Lì, sotto l’egida del capobranco Scarpetta, si svela la vera anima dell’attore.
La pellicola scrive dunque un ritorno eccelso a Venezia per Martone, che nel 1993 vinceva il Gran Premio Della Giuria con il suo primo lungometraggio, Morte di un matematico napoletano. Sempre con a fianco Servillo, sempre in chiave biografica, sullo sfondo della sua terra, che il regista partenopeo non manca mai di raccontare tra storia e memoria. E se il pubblico lo ricorda per Il Giovane Favoloso, presentato nel 2014 alla 73esima edizione del Festival, non potrà che rimanere affascinato da una dimensione narrativa che tocca il cuore degli italiani e la loro eredità artistica.
La morte di Pulcinella
La famiglia Scarpetta è sulla bocca di tutti i napoletani agli albori del secolo breve. Con l’irriverente personaggio di Felice Scioscammocca, interpretato anche dal grande Totò in Miseria e Nobiltà (1954), il teatrante Eduardo conquista ogni sera il palcoscenico. Accanto a lui la storica compagnia teatrale e una famiglia allargata, labirinto di figli e figliastri, vincolata a segreti e compromessi e gioviale nel suo innato amore per il teatro. Così come la famiglia Pepito si è tramandata per generazioni la maschera di Pulcinella, gli Scarpetta rendono Scioscammocca il loro scettro dell’eterno successo.
Lo stesso Servillo recita nel film: “Non ci sta nessuna guerra, io l’ho già ucciso Pulcinella”. Niente di più vero, dato che la teatralità comica e spontanea appartiene a un’unica firma, finché Scarpetta non osa con un progetto ambizioso. Decide di trasporre, in maniera parodica, La Figlia Di Iorio di Gabriele D’Annunzio. Il suo corrispettivo Il Figlio Di Iorio, però, scatena l’indignazione degli artisti del Teatro D’Arte, fedeli al Vate. Nasce così il processo del secolo, con l’accusa di contraffazione ai danni del capocomico e un ritratto pepato del poetico futurista.
Qui rido io: la vita dentro e fuori il palcoscenico
“In ogni famiglia, la follia di uno si riflette nelle stranezze dell’altro”. E a casa Scarpetta, l’imprevedibile è quotidiano, in una dimensione ricca e caotica che nasconde le sue fragilità. I bambini più piccoli si alternano l’uno dopo l’altro nel loro battesimo da palcoscenico, davanti al giudizio fermo e risoluto del loro capofamiglia. Un passaggio rituale, che incide nel corpo e dell’anima un’eredità da portare avanti a tutti i costi. Perché quella risata, impressa in modo calcato sul volto di Scarpetta, è un marchio riconoscibile, progenitore della commedia popolare.
Tuttavia, con la diatriba sul valore dell’arte teatrale e l’imminente avvento del cinematografo, il carisma travolgente del commediante si spegne lentamente tra le crepe sempre più evidenti in famiglia, l’esigenza famelica di successo e l’incessante scorrere del tempo. Quest’ultimo è un tema universalmente condivisibile e veicolo di emozioni sincere, soprattutto se velato tra le parole di Benedetto Croce, interpretato da Lino Musella: “Voi che ridete su tutto, non sapete ridere del tempo che passa?”
Dritto al cuore del pubblico
Martone testimonia ancora una volta la certosina abilità nel raccontare la storia d’Italia nella magica triade storica, letteraria e artistica. Con la sua inconfondibile firma stilistica, disegna Eduardo Scarpetta come un personaggio a tutto tondo, tratteggiato nei vizi che contornano un indiscusso talento da re del botteghino. Con l’attenzione maniacale per la sceneggiatura e la libidine per l’approvazione critica e popolare, Scarpetta passa l’eterno messaggio per cui “per creare un successo ci vuole tutto il pubblico, per un insuccesso bastano dieci persone”. E con Qui rido io, anche Martone ha trovato la sua ricetta per colpire le emozioni del pubblico.
Punta sull’intimità domestica e accarezza la psicologia dei personaggi, genuini esponenti di un’umanità conosciuta che non hanno bisogno di sovrastrutture per raccontarsi. Così come in Capri – Revolution (2018), il regista lascia che i suoi personaggi danzino liberi sulla scena, creando una performance estremamente verosimile, tanto da affacciarsi in tutti i salotti italiani e richiamare quelle radici artistiche, meravigliose perché vere. Ed è in questo modo che, alla fine della proiezione, Qui Rido Io raccoglie uno degli applausi più carichi e lunghi del Festival.
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