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Rapito

Rapito, paraprassie filmiche e pulsioni psicanalitiche

Il nuovo film di Bellocchio analizza la cronaca per affrontare le pulsioni più profonde dell'animo umano

9 minuti di lettura

Le dichiarazioni di Marco Bellocchio circa la sua ultima fatica cinematografica Rapito, uscita nelle sale italiane il 25 maggio 2023 e presentata due giorni prima alla 76° edizione del Festival di Cannes, farebbero presagire un film dal forte intento narrativo, scevro di qualsiasi contenuto ideologico: in più interviste, infatti, il regista avrebbe confermato come volesse semplicemente raccontare una storia, senza alcuna valenza politica o ferma condanna.

Ebbene, tutto ciò non fa che riconfermare due cose: prima di tutto, che l’artista può commentare il proprio lavoro, ma non può sondarne le pulsioni più profonde, proprio in virtù della paternità che li lega e che, nel particolare caso di Bellocchio, la sua tensione freudiana all’onirico, al simbolo, rendono i suoi film stratificati come pochi altri nel panorama cinematografico italiano.

Rapito, valzer di fantasmi e visioni

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Con queste ultime considerazioni non persiste l’intenzione di correggere o mettere in discussione le dichiarazioni dell’autore; va specificato, il più grande pregio di Rapito è sicuramente il ritmo sostenuto col quale si muove proprio la narrazione, agile e sicura delle proprie scelte, capace di snocciolare i suoi personaggi, reali protagonisti d’un eclatante caso di rapimento che sconvolse il mondo nel 1858: Edgardo Mortara, bambino ebreo di sei anni, viene separato dalla famiglia dietro ordine di Papa Pio IX perché riceva un’educazione cattolica, come sancito dal diritto canonico circa le anime battezzate. Qualcuno ha sottoposto il bambino al rito del battesimo nascondendo il fatto ai genitori.

E così inizia un incubo che troverà la sua parziale conclusione solo nel 1870, con la breccia di Porta Pia. Una volta penetrato nelle stanze dove Edgardo è stato cresciuto, il fratello maggiore lo troverà fervente cattolico ed infatuato ammiratore dei suoi stessi rapitori. E qui entra in gioco una delle ossessioni più ingombranti del cinema di Marco Bellocchio: il dubbio ideologico, tradotto in termini freudiani ad “atto mancato/paraprassia,” quell’istante in cui un pensiero combacia con un’azione involontaria del corpo che gli è contraria. In altri termini, pensare A e inconsciamente fare B.

Nel cinema Bellocchianno, spesso si sono incontrati personaggi lacerati dall’ambiguità che separa i loro ideali dalle loro azioni: a partire dall’opera seconda La Cina è Vicina (nella quale un ricco borghese si candida per opportunismo col Partito Socialista Unificato), fino all’Aldo Moro di Esterno Notte (che nell’ultima puntata si ritrova ad odiare ardentemente i falsi amici e i brigatisti nonostante la sua filosofia di vita volta alla pacatezza), anche in Rapito assistiamo ad una scissione identitaria, l’inconscio che combatte con il dogma all’interno della mente traumatizzata di Edgardo.

Tre le sequenze più indicative in questo senso: la prima, nella quale abbracciando il Papa suo padre adottivo, qualcosa di profondamente ancestrale spinge il bambino ormai adulto ad avventarsi sul pontefice con dichiarata violenza, facendolo cadere a terra; la seconda, nella quale, dopo aver rinnegato la famiglia una volta per tutte, il giovane protagonista osserva le ombre genitoriali circondare il suo letto, come quei fantasmi di shakespeariana memoria che tormentavano Riccardo III nella sua tenda, ed infine la terza, più scioccante ed inspiegabile: scortando la salma di Pio IX, la processione di preti e cardinali a cui prende parte anche Edgardo viene assalita dai passanti nel tentativo di scaraventare le sacre spoglie nel Tevere.

Subito, il giovane prova a difendere il carro funebre dalla furia popolare, solo per unirsi ad essa qualche istante dopo con urla e strepiti rivolti al Papa, a quel “porco schifoso,” colto da un improvviso raptus di liberatoria follia.

“Sono solo parole, ci vorrebbe Attila”

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Insomma, diventa chiaro che lo studio psicologico del dubbio e della colpa interiorizzata sono parte integrante dell’immaginario Bellocchiano, psicanalitico e onirico anche grazie alle innumerevoli visioni che lo attraversano: lugubri Cristi e croci roventi, conturbanti gemelli vestiti abbinati (vedasi il documentario Marx può Aspettare, dedicato al fratello gemello di Bellocchio morto suicida per leggere con più chiarezza questi simboli), luoghi di potere, che sia esso politico o ecclesiastico, inquadrati con la stessa gravitas con cui vengono evocati i luoghi di segregazione (collegi privati, manicomi, carceri).

Altro elemento degno di nota in Rapito è proprio l’idea stessa di rapimento, che secondo diverse incarnazioni continua a ripresentarsi nel cinema di Bellocchio dagli anni ’70 a oggi: il primo figlio di Mussolini in Vincere, separato a forza dalla madre, l’esilio autoimposto -o forse no- di Marcello Mastroianni in Enrico IV, fino all’ovvio collegamento con il caso Moro, ripresentato sia in Buongiorno Notte, sia nel recentissimo Esterno Notte.

Ma forse proprio su quest’ultimo paragone varrebbe la pena spendere qualche ulteriore parola: i lettori più attenti avranno forse notato come la dimensione politica di Rapito non sia ancora stata discussa, magari in virtù della sua presunta assenza promossa dal regista stesso; eppure all’interno del film, durante una delle innumerevoli, ottime prove attoriali di Fausto Russo Alesi e Barbara Ronchi, rispettivamente padre e madre di Edgardo Mortara, vengono pronunciate queste parole in merito ad un comunicato redatto dalla comunità ebraica come appello rivolto al Papa per ottenere il rilascio del bambino: “sono solo parole, qui servirebbe Attila”.

Ambiguità psicologiche e ossessioni contraddittorie

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Insomma l’azione armata, la violenza come unico modo di far sentire la propria voce, rifiutandosi di cantare nel coro del potere istituzionale: una violenza che finirà con l’esplodere grazie alla rivoluzione Risorgimentale, il cui leggendario culmine si identifica nella già citata breccia di Porta Pia. Il nuovo, il giovane che irrompe nella città eterna armato fino ai denti, assetato di sangue e vendetta, pronto a spogliare della loro sacralità i poteri costituiti per ricostruire un’Italia nuova, con nuove leggi e nuove regole: una catartica proiezione sessantottina di quel che poteva essere e non è stato, un singulto rivoluzionario rimasto nel retro della mente del regista, probabilmente sinceramente inconscio.

Eppure l’ambiguità psicologica dei personaggi di Marco Bellocchio -e in particolare quella di Mortara- rispecchia proprio il rapporto che lui stesso ebbe con la politica: il suo “atto mancato” fu credere nella rivoluzione violenta de I Pugni in Tasca e nonostante ciò, provare un’immensa compassione per la morte di Aldo Moro, non a caso una presenza spiritica che si aggira senza meta fra tutte le pellicole di Bellocchio, regista politicamente schierato in una guerra ideologica, combattuta simpatizzando col nemico, un po’ come il giovane Edgardo non riesce a coniugare il suo passato ebraico con il suo presente cattolico.

Per concludere, le uniche vittime delle ossessioni dell’autore e del suo ultimo alter ego, sono le corrispettive famiglie: “Io mancai,” spiegava Bellocchio stesso in Marx può Aspettare parlando della tragedia del fratello che si tolse la vita, mentre Edgardo Mortara non solo manca al funerale ebraico del padre, ma sceglie esplicitamente di scambiare la gonna materna con l’abito talare, nascondendosi sotto la prima per non farsi rapire, poi sotto il secondo giocando a nascondino. La reale tragedia di Rapito è raccontata dalle rughe sul viso di Barbara Ronchi, che sul letto di morte è costretta a subire l’ulteriore umiliazione di vedere il figlio che le fu strappato molti anni prima, tentare di battezzarla.


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Appassionato e studioso di cinema fin dalla tenera età, combatto ogni giorno cercando di fare divulgazione cinematografica scrivendo, postando e parlando di film ad ogni occasione. Andare al cinema è un'esperienza religiosa: non solo perché credere che suoni e colori in rapida successione possano cambiare il mondo è un atto di pura fede, ma anche perché di fronte ai film siamo tutti uguali. Nel buio di una stanza di proiezione siamo solo silhouette che ridono e piangono all'unisono. E credo che questo sia bellissimo.

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