La condizione interstiziale del cinema di Bolognini consente di mettere a fuoco l’estrema naturalezza con cui egli realizza l’adattamento cinematografico de Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati, opera dalla spiccata vocazione visiva e pertanto avviata – già nella sua natura originaria – a un destino di opportuna ri-produzione filmica.
Del gusto bologniniano per la ricerca formale si è discusso evocando gli studi di architettura e la passione per la scenografia, imprescindibili strumenti d’osservazione sulla natura e sul mondo, indagate scendendo al fondo «delle cose» [1] illuminate con perizia, rappresentate – quasi – con il tocco del pittore.
«Il bell’Antonio»: Cinema e letteratura
L’altrettanto bruciante predilezione per la letteratura configura la sua opera come un percorso di confine, uno spazio del “tra” che percorre le arti e consente, in una sorta di osmosi continua, di dar vita ad opere che si abbeverano da più fonti, tutte parimenti funzionali a un risultato pieno e soddisfacente.
La scelta di trasporre su pellicola il romanzo di Brancati comporta, per Bolognini, una riflessione sulle potenzialità del suo mezzo che impone, anzitutto, una definizione concreta del termine “adattamento“, inteso – il più delle volte – come una sistemazione di «qualcosa in uno spazio che non è propriamente il suo» [2], quasi a indicare un’appropriazione indebita, pur se favorevolmente realizzata.
Il sodalizio con Pasolini
Il testo dell’autore siciliano si presta, per attualità della materia trattata, più a un’operazione di traduzione liberamente concepita, nella convinzione che trasporre è sì tradire ma spesso equivale a impreziosire, nel difficile ma necessario passaggio da un contesto a un altro – dalla storia alla cronaca.
Il lavoro di attualizzazione è compiuto grazie alla sinergia con Pier Paolo Pasolini, già sceneggiatore per (e con) Bolognini di Giovani mariti (1958), La notte brava (1959) e La giornata balorda (1960).
Dal regime al “boom”
Una storia come quella del fascinoso Antonio Magnano ben si presta all’analisi sull’uomo contemporaneo e la sua mutazione ancora in nuce, certamente meno evidente di quanto andrà palesandosi negli anni successivi, ma già drammaticamente calata entro un «contesto antropologico asfissiante e de-umanizzante» [3].
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Il dramma del giovane siciliano – bellissimo e impotente, pertanto indegno e inservibile – trasmigra dagli anni del Fascismo a quelli del boom economico, sottolineando così una continuità di modi e costumi indelebilmente introiettati, ri-vissuti alla luce di un contesto altro (libero e liberale) ma parimenti accettati, nella «mancanza di modelli alternativi» [4] da proporre e opporre.
Denuncia del conformismo
Se, per ammissione dello stesso Pasolini, la pellicola bologniniana ha alla base un desiderio di denuncia della «borghesia reazionaria e crudelmente conformista, com’è quella del Meridione» [5], dall’altro lato il discorso si estende alla crisi di un’epoca, segnata dall’avviato trionfo di una classe gretta e conformista, animata da una volontà livellante che schiaccia il diverso costringendolo all’emarginazione.
L’intervento di Pasolini, sottraendo Il bell’Antonio alla sua ambientazione, consente di appuntare lo sguardo su un dramma intimo che è specchio di una condizione universale, in cui alla sostanza (umana, imperfetta, manchevole) si antepone la forma, da salvaguardare a ogni costo e a prezzo dell’infelicità. Antonio (Marcello Mastroianni) è un dongiovanni virile e agognato; il paese lo vuole forte, sensibile al fascino femminile ma privo di remore al momento dell’abbandono, perfetto e iconico emblema della maschio dominante.
Impotenza e resistenza
La sua impotenza è ora, nella pellicola, nient’altro che un’inibizione, una sorta di resistenza fisica al sesso gratuito, quello che tutti vorrebbero da lui in quanto oggetto del desiderio e prosecutore della specie, degno figlio di un padre amatore che morirà compiendo il suo dovere di uomo: a letto con una prostituta.
Contrariamente al romanzo, in cui la débâcle sessuale di Antonio si fa metafora della vacuità del regime fascista, il film porta in scena un protagonista che concepisce l’amore come un simulacro inviolabile e non a caso rifiuta di unirsi con donne “come tutte le altre”, con le quali consuma rapporti ma non costruisce ponti che sa di non voler attraversare.
Amor sacro
La liliale Barbara (Claudia Cardinale) è per lui una vergine immacolata, una sorta di immagine da accarezzare e preservare dalla sporcizia del mondo, come se il contatto delle carni già avvicinate da altri potesse intaccarne la perfezione indicibile.
L’abbandono da parte di lei sarà un dolore più che una vergogna: mentre tutti stigmatizzano il suo dis-valore di uomo, Antonio piange una perdita che sa incalcolabile. Il discorso sul potere affrontato da Brancati è qui trasferito su un piano intimo e sociale, che conserva invariati i presupposti di base allargando, tuttavia, il proprio raggio d’intervento.
Sesso e potere
Se la repressione del regime impone ruoli evidenti, marcatamente ridicoli ma riconoscibili, la tolleranza del nuovo corso fa sì che «la malattia borghese» s’imponga come morbo, difficilmente estirpabile perché interiorizzato e condiviso. Il sesso stesso – Pasolini lo ribadirà con forza a cavallo dei primi Settanta – non è più «piacere contro gli obblighi sociali» [6] ma dovere, condizione necessaria per l’accettazione, strumento di controllo e omologazione.
Dis-velare il potere
Antonio, nonostante i travagli interiori, finisce per fingere di aver ingravidato una serva, così da salvare l’onore e la propria virtù. Lo specchio, tanto presente nelle inquadrature che lo incorniciano, si pone dunque come metafora di una vita riflessa, vissuta attraverso lo sguardo di chi con gli occhi lo scruta, lo mangia, lo ridefinisce a proprio consumo.
Il bell’Antonio è un film che fotografa l’eterno presente e lo rende visibile, consentendo allo spettatore di penetrare quella banalità del potere che invade gli spazi interiori rendendoli opachi, ingabbianti, tristemente preconfezionati da altri.
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Note
[1] J. A. Gili, Colloquio con Mauro Bolognini, in AA.VV., Bolognini, Roma, Ministero degli Affari Esteri, 1977, p. 34.
[2] A. Costa, Nel corpo dell’immagine, la parola: la citazione letteraria nel cinema, in AA.VV., Cinema e letteratura: percorsi di confine, Venezia, Marsilio, 2002, p. 33.
[3] M. Nicoletto, Mauro Bolognini e Il bell’Antonio: il rovesciamento dello stereotipo del Latin Lover negli anni del boom, in “Rivista Luci e Ombre”, 1, II, gennaio-marzo 2015, p. 70.
[4] G. P. Brunetta, Letteratura e cinema nell’opera di Bolognini, in AA. VV., Bolognini, cit., p. 120.
[5] P. P. Pasolini, Il messaggio del “Bell’Antonio”: confessioni d’uno sceneggiatore, in “Il Reporter”, 9 febbraio 1960, ora in ID., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti – S. De Laude, Milano, Meridiani Mondadori, II, 1999, pp. 2260-61.
[6] ID., Il sesso come metafora del potere, in “Corriere della Sera”, 25 marzo 1975