Rossosperanza è il nuovo lungometraggio della regista Annarita Zambrano presentato in concorso alla 76° Edizione del Festival di Locarno.
Caratterizzato da venature pulp e da atmosfere grottesche, Rossosperanza è un racconto sull’adolescenza e sulle ipocrisie di una borghesia italiana che cerca di nascondere i propri lati oscuri.
Rossosperanza, la fuga dalla normalità obbligatoria
Un disco di un rosso acceso che inizia a ruotare su di un piatto e, tra le note di Lullaby dei The Cure, immagini di alcuni ragazzi che sembrano scappare nella notte al di là di un cancello. Alla loro fuga, si alterna quella di una tigre feroce in una foresta, braccata da uomini armati. Con questo incipit si apre Rossosperanza, film ambientato agli inizi degli anni novanta che narra le storie di quattro ragazzi reclusi all’interno di un prestigioso istituto di cura per giovani problematici.
Tramite un montaggio che mescola differenti dimensioni temporali vengono presentati allo spettatore i vari protagonisti e il loro passato. Viene introdotta in questo modo Nazzarena detta “Zena” (Margherita Morellini), figlia del medico del papa, nonché ultima arrivata all’interno della struttura. Dopo essere stata lasciata lì dai genitori con la raccomandazione di un ritorno alla “normalità”, la ragazza inizia a conoscere alcuni compagni con i quali condividerà la permanenza all’interno dell’istituto.
Dopo l’improvviso incontro con Alfonso (Leonardo Giuliani), ragazzo omosessuale dalla spiccata personalità, Zena si troverà a instaurare un legame con la compagna di stanza Marzia (Ludovica Rubino), ragazza con forti tendenze ninfomani, e il giovane Adriano (Luca Edoardo), apparentemente affetto da una strana forma di mutismo selettivo. Tra i quattro nascerà un’intesa basata sulla condivisione e l’accettazione reciproca, che li porterà, in seguito, a programmare una fuga dall’istituto.
Rossosperanza, la violenza necessaria
Sorprendentemente curato nella ricostruzione degli ambienti e delle atmosfere anni novanta, il film riesce a catapultare lo spettatore in un tempo differente, all’interno di un’Italia che mostra le sue contraddizioni e le fragilità di una classe borghese sempre più in crisi.
“Torneranno normali?” chiedono i genitori, consegnando i propri figli ai dirigenti dell’istituto. Ma la normalità a cui questi aspirano non è che un’ostentazione, una superficie che nasconde tutto ciò che di marcio e di malato è stato coltivato durante quegli anni di educazione forzata verso dei figli che non si riconoscono in quei modelli e che soffocano sotto il peso della figura paterna che vuole imporre con tenacia un controllo oramai impossibile.
Figura paterna che, non a caso, viene rappresentata sempre con il solito volto, ovvero quello di un ottimo Andrea Sartoretti, nei ruoli dei tre padri che ci vengono mostrati nel corso della pellicola. Una scelta intelligente, che sottolinea quanto il ruolo del genitore venga totalmente depersonalizzato e ridotto a una sorta di archetipo privo di affetto e di reale comprensione nei confronti dei propri figli.
Ma se nel film il padre viene privato di una reale personalità, questa spicca particolarmente in ognuno dei giovani ragazzi. Tutti animati da forti passioni (basti pensare a quella di Nazzarena per la musica o di adriano per il disegno), cercano costantemente di fare emergere la propria interiorità priva di qualsivoglia filtro. Le loro sono storie di violenza, ma non si tratta di una violenza casuale e cieca, bensì di una forma necessaria di evasione da quegli schemi solidi e preimposti dalla società in cui sono nati, che li vorrebbe silenziosi e ubbidienti.
Ogni loro atto in questo senso è dunque mirato a cercare di aprire una breccia all’interno di un meccanismo che tende a nascondere ogni forma di diversità per rendere tutto il più conforme possibile, senza accorgersi di quanto la vera malattia risieda per l’appunto nella cosiddetta “normalità”. Quella dei genitori anaffettivi, dei giovani figli di papà viziati o negli uomini di potere corrotti e ricchi di perversioni.
Atmosfere grottesche e musiche dark
Valorizzato da un ottimo montaggio e da una buona fotografia, Rossosperanza è un film che si rivela essere molto interessante su vari aspetti tecnici. La regia della Zambrano è ben calibrata e riesce a essere funzionale alla narrazione regalando qua e là degli ottimi spunti allo spettatore (basti pensare al piano sequenza all’interno della festa o alla sequenza in animazione, uno dei momenti forse più alti della pellicola).
Le atmosfere grottesche e inquietanti che accompagnano tutto il film son ben messe in scena dalla regista che sembra voler attingere all’immaginario di registi come David Lynch o Yorgos Lanthimos. La sceneggiatura, nonostante qualche leggero difetto, risulta essere comunque godibile e, là dove emergono alcune lacune di scrittura nei dialoghi, l’ottimo lavoro degli attori riesce a colmare ogni incertezza.
Merita un plauso infatti l’interpretazione dei vari attori che han preso parte alla produzione, ognuno in grado di regalare al proprio personaggio la giusta espressività necessaria a conferire il film una propria credibilità. Da segnalare la performance di Leonardo Giuliani nel ruolo di Alfonso, forse una tra le migliori presenti sullo schermo. Degno di nota anche l’uso della musica, sempre ben legata allo scorrere del tempo e degli eventi e rappresentata dal continuo ruotare del vinile rosso che accompagna tutta la narrazione.
“When the tigers broke free”
In conclusione, Rossosperanza è un film che, pur non essendo un capolavoro, riesce a intrattenere in maniera eccellente lo spettatore e ad analizzare il tessuto sociale di un paese all’inizio del proprio declino. Un film fatto di viscere e sangue che parla di passione, di rabbia e di libertà. Un racconto su quella voce interiore che fugge dal controllo di chi ci vuole succubi e obbedienti, spingendoci a scappar lontano. Come tigri che, finalmente, si rinconciliano con la propria natura nella foresta selvaggia.
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