Tra i pochi ad essere docente e critico in Italia, Roy Menarini è una delle figure più di spicco della critica cinematografica. Impossibile riassumere in maniera completa il suo impegno per la settima arte: tra corsi universitari, articoli, ricerche, pubblicazioni e attività di organizzazione culturale. Attualmente è professore nell’area Cinema e Media presso l’Università di Bologna, dove ha tenuto corsi di Storia delle teoriche del cinema e Semiologia del Cinema e degli Audiovisivi; Storia e metodologia della critica; Storia del cinema italiano, Cinema e Industria Culturale e molti altri.
Ha, ed ha avuto, esperienze in numerosissime riviste, sia scientifiche come Bianco e nero e Cinergie – Il cinema e le altre arti, sia di critica, come Segnocinema. Numerose le sue pubblicazioni dedicate in particolar modo al cinema blockbuster e di autori americani, come: Ridley Scott. Blade Runner (Lindau, 2007); Il cinema di David Lynch (Falsopiano, 2002); Il discorso e lo sguardo. Forme della critica e pratiche della cinefilia, (Diabasis, 2018). Critico instancabile, divulgatore attivissimo e attento alle nuove forme dei media (tiene un sito web che con sarcasmo è chiamato Roy Menarini Universe – Visioni Riflessioni Passioni) lo si può leggere sul settimanale Film Tv, della cui redazione fa parte.
1) Nell’intervista a Giulio Sangiorgio, alla domanda sul come non perdersi tra il mare di cose che si vorrebbe guardare (leggere la quinta domanda) ha risposto di trovarsi dei padri, capirli e poi magari ammazzarli. Sei d’accordo? Quali sono stati i tuoi padri? Credi di averli ammazzati?
Sono d’accordo, anche se non so se ho ammazzato i miei padri. Per me le figure più importanti sono state sia a distanza che vicine. Per le prime sicuramente personalità che leggevo come Enrico Ghezzi ed il poco nominato Alberto Farassino, un grande docente e critico, lui è stato importante nel mio ruolo universitario, essendo io tra i non molti critici e professori universitari. Farassino faceva entrambe le cose e gli riusciva con una certa leggerezza, mi fu di grande ispirazione, anche esempio di sguardo assolutamente indipendente.
Ho poi avuto figure più vicine, come Franco La Polla, un grande critico americanista, sia di letteratura che di cinema. Poi, mi orientavo anche attraverso Segnocinema, rivista che leggevo da ragazzo con cui ho iniziato (ed in cui ho voluto iniziare) a scrivere. Rivista che oggi non c’è più, ma centrale nell’era pre-internet; dopo la morte del direttore nel 2023, Mario Calderale, la famiglia ha deciso di chiudere. Io sono del ’71, cominciai a leggere di critica ed appassionarmi al cinema quando andavo al liceo, nel ’85 circa; ho esordito su Segnocinema nel ’93, quando avevo 22 anni.
Tutte le firme di Segnocinema mi sembravano fantastiche, vedevo il cinema affrontato in un modo che nessuno, tra le persone che avevo intorno, affrontava. Trovai in una rivista il mio mondo, mi apriva gli occhi su qualsiasi tipo di film, che fosse d’autore, di genere, con letture semiotiche, psicoanalitiche. Capivo che il cinema diventava una questione interpretativa e che la critica potesse essere qualcosa di più di quello che leggevo sui giornali quotidiani.
Questa è la mia vera formazione, io appunto inizio a scrivere ufficialmente nel ’93 e mi laureo solo nel ’95 in Storia del Cinema, quindi quando iniziai a scrivere stavo ancora studiando i miei primi esami di cinema. Quella rivista fu un mio punto di riferimento e fu come un mio “padre”. Però appunto non se ho mai ucciso i miei padri, sicuramente ho avuto uno spirito molto polemico, che adesso non ho più, specialmente nei confronti dei critici dei quotidiani.
Nell’epoca pre-internet c’era una grossa divisione tra le riviste cinefile e le firme dei quotidiani generalisti, esempi come Irene Bignardi a Repubblica, Tullio Kezich sul Corriere della Sera, nomi che a noi giovani parevano figure incartapecorite, che non capivano niente del cinema contemporaneo, che scrivevano da vecchi insomma. C’era molta polemica da parte nostra, erano padri che già ammazzavamo, dicevamo “non vogliamo questi padri ma ne vogliamo altri”, gli altri prima citati invece non li ho dovuti ammazzare, mi hanno accompagnato sempre come modelli.
2) Da tempo studiosi e critici hanno notato come il cinema per il grande pubblico negli ultimi anni non basta più a sé stesso, si deve continuamente legare ad altro (franchise, altri media, la stessa Storia del cinema), cos’hai da dire a riguardo? Pensi sia una tendenza arrestabile?
Penso che la Storia del cinema ci abbia abituato a molte novità e cambiamenti, sicuramente questa situazione odierna ha a che fare con un certo conservatorismo nel pubblico. Da una parte, il pubblico sembra rispondere quando esce qualcosa di originale; dall’altra parte è anche vero che c’è una dittatura delle intellectual properties (IP). Da questa situazione è difficile uscirne, perché le IP che stancano non vengono sostituite da qualcosa di nuovo, ma da altre IP.
Questo porta le industrie dell’audiovisivo, quando sbagliano dei prototipi, a tornare sulle stesse figure, degli oggetti, che hanno già una storia, un merchandising, generazioni che si sovrappongono una sull’altra, utilizzi narrativi di ogni tipo. Ecco che così si torna punto a capo. Guardate il caso di Tolkien; è una giungla in cui ci si perde (seconda stagione de Gli Anelli del Potere, il film su Gollum, il settimo della saga cinematografica, l’anime su War of Rohirrim che uscirà a dicembre).
A lungo, insomma, si andrà in questa direzione, però è anche vero che le cose sono più rapide di quanto si pensi. Basti guardare il veloce disinteresse per la Marvel negli ultimi anni. È come se ci fossero dei cluster di interessi, come se questi mega brand vengano ogni volta sostituiti con altri mega brand. Se rimaniamo al cinema più visibile, l’autorialità e il commerciale sembrano darsi una mano: come è successo con Lanthimos, che prima fa dei film iper d’autore in Grecia e ora invece fa dei lavori più hollywoodiani con uno stile dissacratorio come Povere creature. È il caso anche di Nolan o Greta Gerwig.
Ognuno di questi autori si porta dietro un bagaglio autoriale che è innegabile, garantendo così il successo dei loro prodotti più “commerciali”. A seconda di come si vede il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, oggi ci troviamo in una fase in cui sta nascendo qualcosa in mezzo allo spazio che divide i film di ultra-nicchia e i blockbuster.
3) In un tuo articolo su Film Tv parti da La fiera dell’Autenticità di Lipovetsky per spiegare come l’autenticità dilaga “o meglio la sua costruzione comunicativa, perché tutti devono dimostrarsi autentici per essere apprezzati”, spieghi poi come il mercato rifugge al crollo di questa struttura comunicativa, illustri poi come “il populismo di destra si nutra dello smascheramento dell’altrui finta verità”. Vorresti approfondire la cosa?
Questa ossessione di dimostrarci autentici è un segno dei nostri tempi, non riguarda solo gli autori ma anche altro, come le celebrity, campo che studio anche accademicamente da un punto di vista più sociologico. Il senso è che tutto ciò che appariva lontano ed inarrivabile, inattingibile come sono le star, adesso, e proprio per questo doversi dimostrare autentici, in certi momenti deve darsi all’opposto: senza make up, vantarsi dei propri chili di troppo, non nascondere le proprie vulnerabilità e altro.
Proprio perché è un tipo di discorso che sui social funziona molto, in un’epoca in cui bisogna avere body positivity, rifuggire il body shaming e dove anche le figure più in vista possono dimostrare i propri difetti e non perdere elementi di autenticità. Questo è un discorso che Lipovetsky fa andando a ripescare l’origine del termine. Per quanto riguarda gli autori, è chiaro che nell’autorialità contemporanea c’è molta attenzione, da parte del pubblico, sulla integrità dell’autore.
Mi sembra che la gran parte delle discussioni social, che stanno un po’ soppiantando la critica, siano molto spesso legate all’autorialità ed integrità dell’autore e cose simili. Quindi discussioni spesso (non sempre) impoverite, nelle quali si dice che l’autore o è stato integro o si è venduto al sistema, o è invecchiato o è ancora forte, capolavoro o boiata, questa polarizzazione, dove la figura autoriale viene analizzata in tutto e per tutto, tranne per quello che fa, cioè l’opera, il testo, il discorso narrativo-estetico.
Questo discorso, ossessionato dall’integrità e dall’autenticità, può portare a dei limiti, specialmente per quella galassia di “discorsi generali sul cinema” (insieme molto ampio cui la critica è una parte) che rischia di impoverirsi e badare a cose che non sono essenziali.
4) Quale pensi che sia il ruolo della mediazione culturale oggi in Internet.
È un argomento che non ha risposte definitive. Sicuramente i social media hanno un rumore di fondo che rischia di essere molto impoverente. Però contrariamente non si può dimenticare il suo potenziale molto ampio. Anche il sottoscritto ha aperto i propri canali social (Roy Menarini, oltre al sito web, ha un canale YouTube: RMU – Roy Menarini Universe, ndr.).
Utilizzando vari strumenti di questo tipo ho provato a trovare un habitat come professore e come critico del cinema. Da una parte cerco di sottoporre all’arena digitale una lettura, e poi ovviamente il mio obiettivo è discutere attraverso commenti e forum. È una cosa interessante, nell’epoca in cui sono cresciuto io non c’era questa possibilità.
La discussione sulla carta stampata non esisteva. Oggi forse ce n’è troppa. Ma se togliamo questo rumore di fondo, e andiamo a sfruttare le potenzialità di avere un testo, il lettore e il critico tutti riuniti sulle piattaforme, è ancora oggi un potenziale enorme di mediazione culturale. Bisogna, insomma, culturalizzarlo questo spazio.
5) Hai citato prima Gli Anelli del Potere, del quale è uscito il trailer qualche settimana fa. Su Youtube abbiamo trovato “divulgatori” che hanno fatto live reaction lunghe 4 ore e 40 minuti…
Come detto prima, stiamo attenti a scegliere. Sul discorso del cinema, quando siamo alle prime armi, bisogna tagliar fuori questa iperfetazione commentativa. Non serve a nulla, almeno non all’inizio. Non sono le comunità con cui confrontarsi. Bisogna piuttosto aprire un dialogo con i giusti canali, e a partire dalle basi. Poi, del resto, questi tipi di contenuti (live reaction ai trailer, analisi approfondite lunghe ore su singoli dettagli) ci saranno sempre.
6) In un articolo su Film Tv scrivi come a conti fatti sia impossibile moderare il proprio pregiudizio, ma che bisogna sforzarsi continuamente di tenerlo sotto controllo, come moderi il tuo pregiudizio?
Innanzitutto, ci sono due tipi di pregiudizio: il primo è quello che proviene dall’accesso di informazione di cui stavamo parlando prima. Il fatto che arriviamo a vedere un film quando è già stato commentato, discusso, previsto, anticipato, esaltato, in tutti i modi possibili ed inimmaginabili. Come se arrivassimo finalmente davanti allo schermo con uno zaino sulle spalle di cose già lette, sentite, viste e facciamo veramente fatica a togliercelo, è come se vedessimo già per la seconda volta il film.
Questo è un pesante bagaglio che ci portiamo dietro. Bisogna cercare, quanto possibile, di ridurre l’informarsi ossessivamente sulle cose che altri hanno già visto e commentato, ridurlo un pochettino preservando la possibilità di incontrare il film o la serie con un minimo di verginità, per quanto possibile, visto che non siamo eremiti.
L’altro pregiudizio è quello che alberga dentro di noi, per cui abbiamo tutto un sistema di gusti principalmente, ma anche di passioni o idiosincrasie che, per prima cosa, dobbiamo conoscere. Non è che possiamo eliminarle e diventare delle pagine bianche, però se io so che faccio fatica a sopportare un certo tipo di cinema, devo ricordare e soppesare questo aspetto, cercare di convincermi a mettermi in ascolto. Come Sangiorgio diceva, resisto e devo convincermi a lasciare che il film mi parli, la stessa cosa vale per il nostro pregiudizio: ce lo abbiamo, non c’è niente da fare, però lasciamo che il film ci parli, apriamo occhi e orecchie, poi faremo i conti.
Questi due pregiudizi, soprattutto il primo, sono una zavorra. Il primo in particolare sta avendo delle conseguenze serie anche sulla critica professionistica, la quale è stata un po’ travolta dai social: non è che ci sono dei giovani che usano i social e i meno giovani che sono in grado di lavorare su questi media, anche la mia generazione è stata travolta. Vi è sopra, sta usando quei linguaggi, si è fatta un po’ impoverire in alcuni casi, secondo me, da queste battaglie.
Mi capita così di leggere recensioni o commenti che cercano di posizionare il valore del film non sulla base del valore dello stesso, ma sulla base di quello che qualcun altro ha detto. Quindi la recensione diventerebbe: “è meglio di quello che hanno detto” o se “è peggio di quello che hanno detto altri”, oppure “non è vero che o è vero che”, in un dialogo abbastanza angosciante ed autoreferenziale, tra critici che si parlano tra di loro.
Quest’ultima è la cosa che la critica assolutamente deve evitare di fare, perché deve trovarsi lettori fuori dalla cerchia: affrontare, collocare e giudicare il film con i propri strumenti critico-interpretativi, poi trasportarli in un altro luogo, che non è quello dove tutti hanno masticato questo film ma è quello del tuo sguardo, che è differente da quello di tutti gli altri, e chissene importa di quello che gli altri hanno detto.
Il tema del pregiudizio è quindi molto importante non solo per il mestiere di un giovane critico ma anche di tutti i critici, perché si devono ricordare di uscire da questo circolo di autoreferenzialità. Secondo me è il pericolo maggiore della critica di oggi.
7) Cosa consigli ai giovani che si vogliono interessare nel fare i critici?
Leggere tanto. Trovarsi critici, testate di riferimento, ma anche leggere in generale. L’atto della lettura, come quella della visione, è estremamente importante e deve essere abituale per il critico. Niente come leggere romanzi, saggistica, giornalismo, aiuta a schiarirsi le idee. Se siete bulimici, siate bulimici: libri sul teatro, libri sul fumetto, libri sulla fantascienza, ecc.
Per quanto riguarda l’atto più direttamente della critica cinematografica, la cosa più importante è la Storia del cinema. Perché il rischio di presentarsi alla critica contemporanea con le armi spuntate c’è. Chi ha avuto la fortuna di apprendere queste cose in università parte sicuramente avvantaggiato, ma anche chi non lo ha fatto non dovrebbe esimersi.
La Storia del cinema è una precondizione essenziale, che non significa solamente vedere i 25 film più importanti; devi vedere i film fondamentali, così che la Storia del cinema ti scorra a fianco, come un binario, per tutta la vita. Vedo spesso film del passato, come anche seguo molti festival sul cinema del passato. Tenere sempre aperta la finestra sulla Storia e averne una cognizione di base per cominciare.
8) Hai qualche guilty pleasure cinematografico, nel senso un film/genere/regista o qualcosa di simile?
Questa domanda nel 2024 è difficile perché è stato un po’ sdoganato tutto; qualsiasi cosa dico ha una sua nobilitazione in qualche area degli appassionati. Comunque ho due guilty pleasure. Mi rendo conto di avere una passione insana per il comico più demenziale, non inteso come il comico volgare di per sé (per esempio, non mi piacciono Boldi e De Sica e non mi interessano minimamente). Parlo proprio del concetto di demenziale, quel lato di comico assolutamente delirante nel quale a volte ci sono paradossi molto interessanti.
Non per forza film geniali, spesso anche film molto bassi, perché mi interessa quel tipo di comicità, mi diverte molto che si tratti di figure alte come John Belushi o che si tratti di filmetti come il prequel di Scemo più Scemo, che trovai un ottimo film demenziale. Quando escono queste operazioni io ho un pregiudizio positivo, si vede che c’è una parte di me che vuole lanciarsi in questo mondo in cui non c’è mai fine al peggio.
C’è poi un film specifico che è un mio guilty pleasure: Footlose (1984), che ho poi scoperto essere divenuto di culto per alcuni. Il me giovanissimo degli anni ’80 ha vissuto un periodo in cui questo film, un giovanilistico-musical con Kevin Bacon, lo riteneva e sosteneva essere uno dei migliori mai girati, poi ovviamente non ho più avuto il coraggio di dirlo. Rimane la teen musical comedy perfetta per me; quindi sì, un guilty pleasure, lo metterei tra i 10 film più influenti nella mia vita.
9) Lei è tra i pochi che è sia critico che professore universitario, secondo lei come mai c’è questa scarsità?
Il punto è il percorso formativo, adesso ho la sensazione che si stia rimescolando un po’, per fortuna. C’è stata una fase, negli ultimi 30 anni, nella quale gli studi accademici hanno dovuto abbandonare gli strumenti più critici, dimostrando di fare ricerca con la R maiuscola per legittimarsi. Quindi ricerche storiche, documentali, ricostruzioni; non studiare un regista ma repertori, archivi, epistolari, sceneggiature. Insomma, tutto quello che è diventato la teoria e la Storia del cinema.
Questo tipo di ricerca ha avuto anche, devo dire, l’obiettivo di non sembrare critica e di far capire che era accademicamente seria tanto quanto le discipline più storiche che ci sono nelle università italiane, per poter sedere in dipartimento con storici, archeologi ecc. È stato un progetto che ha portato ad almeno due o tre generazioni di studiosi a mettere tutte le proprie forze ed energie su questo lavoro. Mentre l’aspetto critico cinefilo è andato per la sua strada, più allergico a questo aspetto iper-accademico.
Devo dire che io ho tenuto botta fin dall’inizio, anche con molti sacrifici, facendo entrambe le cose e rispettando le caratteristiche dell’una e dell’altra, cercando anche dei terreni di dialogo: quando sono accademico non sono mai completamente estraneo alla critica, viceversa, quando faccio critica non sono mai estraneo ai miei strumenti accademici. Spero di aver trovato un po’ delle porte girevoli, o almeno un ponte, tra le due.
Adesso noto che le cose si stanno un po’ muovendo, gruppi accademici fanno critica di approfondimento, penso al gruppo di Fata Morgana Web, una bella rivista online che fa riferimento a delle università del sud; ci sono poi vari critici giovani che si stanno affacciando al mondo universitario. Penso che le cose stiano ritornando a mescolarsi, ma per lungo tempo no ed è per questo che io, Canova e pochi altri siamo critici e accademici.
Altro discorso invece sono i critici che sono anche docenti, ma non accademici in senso stretto. È un grande tema che riguarda la sostenibilità della vita del critico, per cui oggi fa molta fatica a sopravvivere di sola critica e spesso fa il docente per associazioni culturali, corsi, master o collabora con festival e simili attività.
10) Per concludere, tre libri che consigli sul cinema?
Gli Scritti Strabici di Alberto Farassino, volumone che raccoglie la sua opera permettendo di conoscerla al meglio; Paura e Desiderio di Enrico Ghezzi, un classico; prendendo un critico straniero dico Serge Daney e la raccolta Ciné Journal, che raggruppa le sue cose migliori.
Sono tre raccolte critiche, ma mi interessano come modelli perché mi ci sono formato e mi piacquero particolarmente quando ero già critico. Essendo la recensione una forma che muore subito, che purtroppo è difficile resista al tempo, in quanto molto legata alla quotidianità, i recensori vedono i propri lavori dimenticati, sorpassati e archiviati. Lo strumento della raccolta salva le recensioni dall’usura del tempo, dal loro essere occasionali.
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