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Apologia di Rumore Bianco, l’unico film che Baumbach avrebbe potuto fare

A 38 anni dall'uscita di Rumore Bianco l'acclamato testo di Don DeLillo diventa film, in streaming dal 30 dicembre e presentato in apertura della 79ma edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Tra stupore ed entusiasmo, con qualche sbuffo in sala, il risultato lascia di certo sbigottiti.

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11 minuti di lettura

Baumbach e Netflix accettano la sfida e tentano l’impossibile. A 38 anni dall’uscita di Rumore Bianco l’acclamato testo di Don DeLillo diventa film, in streaming dal 30 dicembre e presentato in apertura della 79esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Tra stupore ed entusiasmo, con qualche sbuffo in sala, il risultato lascia sbigottiti. Perché il regista di Frances Ha e Marriage Story, tramutato stile, trasforma un romanzo inadattabile in un distillato cinematografico, strabordante di materia intelligibile dal fascino moderno.

La vita di Jack Gladney (Adam Driver) arriva al pubblico in picchi d’ansia e paranoie che impattano per il rigore senza mezzi termini con cui Baumbach affronta il racconto. Rumore Bianco è in caps lock, font bold, stile urlato. Se sono numerose le vicende che in 136 minuti compongono l’epopea esistenziale del protagonista, professore di college esperto in studi hitleriani e padre di una pittoresca famiglia allargata, fittissima è la matassa dei modi narrativi. Modi del cinema, dunque generi, stili e tecniche: un’antologia visiva di cui si critica un manierismo che è l’unico modo accessibile a Baumbach per portare sul livello delle immagini un racconto profuso di cultura diffusa e pop, avanguardista come “una scatola di cereali”, la stessa con cui DeLillo annunciava il connubio (post)moderno tra i dubbi dell’esistenza e linguaggio da supermercato. 

Niente ode al cinema o dichiarazione d’amore, l’assalto ai generi è uno strumento squisitamente teorico, l’arma di un’ironica critica sociale che è invero semplice espressione, marcata di arrendevolezza, dei modi d’esistenza di una tragedia umana odierna racchiusa nei meandri automatizzati di un supermercato. 

Di generi e deja vu

La struttura fedele al libro, persino nella divisione in tre parti, trova la via dell’immagine in una sincope di generi. Un film di film, giustapposti uno all’altro, in un carosello che condivide un tema segnato dalla paranoia: la paura di morire. Per questo è letterale e di apparente immediatezza. Un imbroglio che coincide con la morte, quando ogni particolare di vita moderna – segnata da claim pubblicitari e spot – si fa metafora a disposizione dell’osservatore.

DeLillo dissemina il testo di marchi e prodotti che il suo protagonista osserva come un tramonto che annuncia la fine, Baumbach farcisce il film di generi. DeLillo scrive “mastercard-visa-american express”, sacra trinità, Baumbach mostra un dramma familiare, poi una sitcom, un disaster movie, un thriller. Un supermercato di stili di morte, di approcci: come la vuole sognare la fine, musical o thriller? Scegli: detersivo in polvere, gel, perle, capsule, pastiglie. 

Fil rouge dei tre capitoli è proprio una piccola compressa che promette di dimenticare il terrore della fine, un panico che adombra l’intero film tra grandi e grandissime catastrofi. Tra gli effetti indesiderati del Dylar, questo il nome della pastiglia, c’è la peculiarità di una morte moderna espressa come impossibilità di interpretare il mondo con strumenti univoci, perché immerso in simboli ridondanti e contraddittori.

La duplicazione degli elementi è per Baumbach strumento del racconto. Non è un caso che sia il deja vu il sintomo prodotto dalla nube tossica protagonista della seconda parte di film. Pastiglie e nuvole impregnate di sostanze nocive, le forme della morte in Rumore Bianco sono effetti artificiali e chimici.

Il ritorno ripetuto di oggetti e parole è, in maniera propria del cinema, nel voice over del figlio adolescente, che d’improvviso racconta con tono intenso ciò che abbiamo appena visto. Baumbach usa la ridondanza della messa in scena come tasto OFF della morte, privandola del fattore evento. All’università di Jack si studiano le scene di incidenti automobilistici e Rumore Bianco inizia da qui, dallo schermo popolato di morti ripetute, identiche, banali. Baumbach afferma subito la centralità del cinema nella riflessione ma ne accoglie la fallibilità. La natura della morte moderna fagocita tutto. I generi alternati tentano l’interruzione del raddoppiamento, riuscendo solo ad abbellirlo. Alla fine si torna al supermercato, dove le luci alte e diffuse eliminano ogni peculiarità cinematografica. Vince un pessimismo ironico, cifra postmoderna che non può che buttarla in risata. Anzi, in Musical. A proposito: anche se Rumore Bianco è faccenda di Netflix, godetevi i titoli di coda.

Di segni e cose

Rumore Bianco è un adagio andante di segni e cose, nomi e oggetti, perpetuati con instancabile audacia. Il risultato è lo stesso prodotto dal Dylar: la confusione tra parole e significati in una veste di una paranoia contemporanea. 

Tutto si unisce e confonde in un rumore bianco che è il brusio inespugnabile di una modernità fatta di overload di stimoli. Pubblicità, tabloid, dicerie, brand ed etichette. L’indagine del suo protagonista, un Adam Driver che al primo giorno di Mostra mette in tasca un premio sicuro, riguarda le domande di sempre vestite di insostenibile, trascinante, (post)modernità. In un cambio di forme continuo e repentino, cadenzato come il rallentare di una lavatrice prima del rollio finale, Rumore Bianco rimane fedele a un solo luogo: il supermarket della piccola cittadina universitaria in cui anche la fine del mondo attende in coda alla cassa.

Ma nelle corsie di un market dell’assoluto è a disposizione solo la versione pubblicitaria e avanguardista della morte. Baumbach mostra la nube tossica protagonista dell’inserto disaster movie del film come fosse il Mind Flyer di Stranger Things, prodotto tra i prodotti del supermercato Netflix, assieme brand e marchio che stilizza e alleggerisce un’idea della fine. 

L’insieme compone un linguaggio che Baumbach trae senza modifiche da DeLillo, ma a cui aggiunge un metodo di cinema. Si parla per spot e frasi a effetto, facili da appuntare ma impossibili da credere se non in un complicato sforzo ermeneutico. Greta Gerwig affianca Adam Driver in una storia di famiglia vicina al mondo di Baumbach. Figli provenienti da innumerevoli matrimoni formano un clan che il film valorizza solo in relazione al suo protagonista, a discapito di comprimari forti ma lasciati sul fondo.

A lui ogni attenzione, castello di carta convinto di essere fortezza. Crolla presto, ma solo dopo averci regalato alcune splendide fandonie. Una su tutte: gli studi hitleriani. Jack Gladney è il massimo esperto in materia, mentre il sodale collega (Don Cheadle) si occupa di Elvis

Ancora una volta, è tutto rumore bianco, brusio che dice morte in ogni modo, come dire sapone ma sostituendo la cosa con le marche disponibili in corsia. Le figure che con fiducia teorica vengono affrontate dai protagonisti sono esempi di immortalità a loro preclusi. Hitler ed Elvis sono personaggi più grandi della vita, si dice. Ma Jack Gladys, goffo sino al grottesco grazie a un Adam Driver piegato nell’alienazione del soggetto, può solo porsi in sovrapposizione con un proiettore su cui scorrono immagini del dittatore come esempio imperante della resistenza alla morte.

Il cinema riuscito (ma inutile)

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Baumbach, alla ricerca del cinema in un’opera del tutto letteraria, si affida ad associazioni di montaggio – ancora: le metafore banali del capezzale – votate alla suggestione. Se la struttura in tre è rispettata, i raccordi sfumano creando nuove ipotesi: Jack Gladys si abbandona a un teatrino dell’orrido dedicato a Hitler mentre un treno deraglia producendo il disastro tossico che produrrà l’evacuazione della città. 

Alla fine, i segni e le cose danzano in un film che sfiora la volgarità e il banale per immediatezza e sfacciataggine. Nell’idea di Baumbach si realizza un accumulo di possibilità estetiche in cui si muovono identici attori costretti all’alienazione. Buffi e grotteschi. Un simbolo della vita moderna intrappolata in un accumulo di informazioni che diventano strumento per affrontare il reale. 

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Amore e sentimento sopravvivono. La famiglia difende dalla morte e Baumbach sembra prometterci un’eternità buffonesca, chiusa ancora in supermercato. 

La sorpresa con cui Rumore Bianco si rivela ai delilliani – che è sbigottimento per i digiuni del testo letterario – non risiede nella tecnica quanto nel lavorio di sensi che costruisce in questi sintagmi, accostati come teatrini impossibili. Rumore Bianco poteva essere solo questo, ma non ce ne eravamo accorti. 


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Studente di Media e Giornalismo presso La Sapienza. Innamorato del Cinema, di Bologna (ma sto provando a dare il cuore anche a Roma)e di qualunque cosa ben narrata. Infiammato da passioni passeggere e idee irrealizzabili. Mai passatista, ma sempre malinconico al pensiero di Venezia75. Perché il primo Festival non si scorda mai.

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