Su Netflix il racconto di un uomo che rimanendo “dietro le quinte” è riuscito a cambiare la storia. Rustin è il biopic incentrato sulla vita, o perlomeno una porzione, di Bayard Rustin, uno dei protagonisti principali nelle lotte per i diritti civili degli afroamericani negli USA segnati dalla segregazione razziale, e non solo.
Il film si incentra sulla preparazione e l’organizzazione della grande marcia su Washington del 1963; sì, proprio quella in cui Martin Luther King ha recitato: “I have a dream“. Dire momento storico è dir poco. Grandi ambizioni, e adesso parliamo del biopic, ma un risultato tutt’altro che grande; più che altro medio. Ecco perché.
Il momento è solenne, eppure Rustin non riesce a dargli giustizia
Stati Uniti d’America, 1963. Le lotte contro la segregazione razziale infiammano tutti i 50 stati. Il diktat è quello di manifestare sì, ma in modo pacifico; a capo di questa scuola si trova Bayard Rustin, attivista della prima ora, che progetta una grande marcia sulla Capitale con oltre 100 mila partecipanti.
Il film, diretto dal premio DGA e vincitore di tre Tony Award George C. Wolfe, racconta proprio la preparazione alla manifestazione che ha scosso Washington DC (e il mondo intero) quel mercoledì 28 agosto del ’63. Protagonista di quell’episodio è stato sicuramente Luther King (grande amico di Rustin) ma questa volta tutte le attenzioni si concentrano sulla mente di quello che si è rivelato essere uno dei momenti cruciali della storia moderna.
Non c’è poi tanto altro da aggiungere. Il biopic dell’attivista originario di West Chester, ora disponibile sulla piattaforma streaming Netflix, è un racconto minuzioso di ogni passo (falso e non) che porta alla giorno della marcia; marcia che infine viene mostrata con parsimonia, forse troppa. Insomma, si capisce sin da subito (e il titolo aiuta in questo) che l’attenzione è tutta incentrata su Bayard. È lui – che tante volte nei corsi e nei ricorsi della storia è passato in secondo piano – a rubare la scena questa volta, anche a discapito della stessa narrazione; o perlomeno a discapito della sua riuscita.
Rustin, un film insapore
In Rustin non viene lasciato allo spettatore nemmeno un secondo per abituarsi al racconto, per prendere cioè le misure con la narrazione e i personaggi. Nessuna intro “formale”, si entra subito nel pieno degli avvenimenti; anche se in questo caso non c’è poi troppo di cui entusiasmarsi. A quanto pare la vicenda reale offre degli stimoli e delle aspettative sicuramente entusiasmanti che non vengono soddisfatte poi nel film, e questo sembra deludere un po’. Insomma, nemmeno Martin Luther King riesce a tenere alta l’asticella in questo caso…
Insomma, di quel fermento, della paura e della rabbia di un popolo intero si percepisce ben poco. Così come viene poco percepito l’importanza capitale di quel momento storico. Certo, si capisce bene l’importanza del personaggio Bayard Rustin, così come si comprendono l’integrità morale e l’impegno sociale dell’uomo Bayard Rustin; ma è tutto il resto a sembrare leggermente insapore, ecco.
Alcuni punti, però, riescono comunque ad attirare, se non alla storia, sicuramente allo schermo. Stiamo parlando dei flashback in bianco e nero che mostrano il passato di Rustin, agli albori della sua carriera come attivista, e non solo. E allo stesso tempo parliamo della ricostruzione fittizia (ovviamente) dei mitici sixties. Gli anni ’60 nel biopic firmato Netflix si respirano e si vivono.
Lo si fa nell’abbigliamento dei vari personaggi, dai protagonisti in giacca e cravatta a quelli secondari con gilet, camicie e gonnelline casual del tempo. Lo si fa nel jazz che collega le varie scene, e nei piccoli sprazzi di rockabilly. E infine lo si fa addirittura nelle Buick e nelle Chevrolet color pastello che animano le (poche) scene in esterno, tra fumi delle marmitte e clacson che suonano all’impazzata nel traffico.
Altre caratteristiche, invece, annoiano chi guarda. In questo gruppetto rientra la sceneggiatura, che sembra svilupparsi per slogan piuttosto che per battute, e ciò non aiuta; e inoltre, il vocabolario utilizzato pare un tantino troppo forzato, con parole sicuramente ardite.
Una regia chiara, ma poco incisiva
La parte strettamente tecnica di Rustin, a parte qualche strano zoom e movimento di camera, presenta poche pecche. E forse in questo caso serviva azzardare un pochino, giusto per mantenere viva l’attenzione dello spettatore che tende a mollare troppo facilmente lo schermo. Anche per quanto riguarda le prestazioni attoriali non ci sarebbe troppo da aggiungere; buone, anche se alcuni personaggi appaiono un po’ troppo impostati nelle battute e addirittura nei movimenti.
Tutto viene tenuto in piedi da Colman Domingo, attore che interpreta Bayard Rustin, e dalla sua cricca di fedeli che lo circonda per tutto il film senza mai rubare la scena. Già, perché questo è uno dei pochi casi in cui gli attori secondari rischiano seriamente di sovrastare il cast primario che sembra non reggere il ritmo (già lento di suo) del racconto.
La storia va veloce eppure il ritmo è molto cadenzato; non aiuta il montaggio, ottimo ma scolastico, né tantomeno la sceneggiatura (ritorna ancora una volta sulla lavagna, lato cattivi) e il mondo in cui vengono impostate certe scene. Inoltre, parlando proprio di scene, questo sembra essere un film non adatto a chi soffre di claustrofobia, il che non è per forza una pecca, anzi. Infatti si rimane sempre al chiuso, e le scene “esterno” vengono ridotte al minimo. Tutto è racchiuso in una singola stanza, spesso poco illuminata. Rimangono solo piccoli spiragli di luce e di aria
Infine, l’ultimo scalino di Rustin potrebbe rappresentare in pieno l’intero biopic. Stiamo parlando della grande marcia su Washington, un episodio capitale del quale nelle immagini riprese da George C. Wolfe rimane poco o niente; più niente che poco. La grande folla non sembra essere poi così grande, e paradossalmente gli slogan diminuiscono rispetto alla prima parte del film, tant’è che la frase più attesa nemmeno viene pronunciata. L’ultima immagine? Bayard Rustin che fa Bayard Rustin (e cioè l’attivista); eppure, non è proprio così che ce lo aspettavamo…
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