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Sanctuary

Sanctuary, la deliziosa ambiguità fra realtà e fantasia

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8 minuti di lettura

I due paladini del nuovo cinema indipendente americano, Margaret Qualley e Christopher Abbott, sono i protagonisti di Sanctuary, un approccio moderno al thriller erotico, con un pizzico di ironia a fare da contorno. Il film di Zachary Wigon infatti racconta il rapporto perverso di Rebecca, una dominatrice, e Hal, il giovane erede dell’impero economico del padre, deceduto da poco.

Sanctuary è una ventata d’aria fresca per il cinema indipendente americano, essendo un prodotto comunque derivativo, ma che non si spreca in inutili omaggi o rimandi metatestuali a film simili, ma crea invece una propria chiara e lucida identità, narrativa ed estetica.

L’importanza di un prologo ben riuscito

Sanctuary

Sanctuary non perde tempo e nei primi dieci minuti presenta già tutti i temi, le caratterizzazioni e i giochi di sovversione delle aspettative che si ripeteranno nel corso di tutto il film, stabilendo sin da subito un tono ben preciso: i protagonisti vengono introdotti in un contesto molto formale, una avvocata che presenta dei documenti al suo cliente, Hal. Gradualmente, questo colloquio di lavoro si trasforma in una situazione molto più ambigua, con l’avvocata che stuzzica e provoca il suo cliente, che manifesta molto disagio.

All’improvviso, la scena si ferma: Hal, molto infastidito dal comportamento di Rebecca, tira fuori il copione che le aveva preparato e le ricorda che deve seguirlo alla lettera, sennò non riesce ad entrare nella fantasia e ad eccitarsi. Il gioco è svelato: stavamo assistendo ad una sessione della dominatrice e del suo cliente: risolto l’equivoco, la scena va avanti, ma Rebecca continua a voler cambiare il copione. Nonostante una resistenza iniziale, Hal si fa guidare dalla dominatrice in questa nuova, inaspettata fantasia: la scena prosegue e raggiunge il climax (in tutti i sensi).

Ma, subito dopo il coito di Hal, il film ci mostra che era tutto da copione, compresi gli sbagli di Rebecca e le sue iniziative per cambiare la fantasia. Sanctuary racchiude nei suoi primi minuti un piccolo cortometraggio a sé stante, che potrebbe già comunque funzionare da solo. Ma questo prologo è solo l’inizio, poiché getta le basi per un rapporto perverso che gioca su continui ribaltamenti di potere, su manipolazioni e fantasie mentali. Non è ben chiaro chi abbia il coltello dalla parte del manico, o fino a che punto si spinga il limite tra realtà e fantasia: il film è pervaso di una deliziosa ambiguità fino all’ultimo secondo.

L’estetica e l’originalità di Sanctuary

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Sanctuary è un ottimo studio sui personaggi, che si addentra nella psiche non solo di Hal, il cliente perverso, ma anche di Rebecca, che ha una mente non meno perversa, anche se all’inizio potrebbe non sembrare così. Il rapporto malato, ma fondamentalmente equilibrato, tra i due viene esplicitato in maniera sottile, seppur all’inizio il film sia strutturato in modo da sbilanciare l’ago della bilancia su quale tra i due protagonisti sia il più sano.

Il loro rapporto si esprime anche nella stanza d’albergo, confortevole e cupa allo stesso tempo, sexy e inquietante, claustrofobica non tanto per l’arredamento quanto per la pesantezza e l’ambiguità che pervade le vicende di una singola notte senza fine. Lo stesso si può dire della colonna sonora, eccentrica nel suo minimalismo, che spazia da rilassanti ritmi jazz a quelli elettronici e pulsanti.

Pur ricalcando le orme di quei thriller erotici degli anni ’80 e ’90 (vengono in mente titoli come Crimes of Passion di Ken Russell o il classico Attrazione Fatale), Sanctuary in realtà racconta una storia originale, che tocca temi attuali e con una messa in scena contemporanea. Familiare, ma non derivativa: Wigon riesce per una volta a creare un film senza omaggi, senza citazioni, senza furti. In un periodo in cui escono almeno un centinaio di film al mese per lo streaming, Sanctuary forse non verrà ricordato, ma è comunque un’ottima alternativa a molti film suoi contemporanei.

Un’evoluzione della manic pixie girl?

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Anche se il fulcro narrativo rimane Hal, la vera protagonista di Sanctuary è Rebecca: è lei che detta le regole del gioco, lei che tiene le redini della storia, lei che dirige l’evoluzione di Hal stesso. Infatti diventa sempre più chiaro come tutto quello che fa Rebecca sia finalizzato a rendere realizzato il suo cliente/partner. Sembrerebbe quasi una sorta di manic pixie girl in negativo, attualizzata ai tempi moderni.

Infatti si potrebbe discutere molto di come il suo personaggio esista solo per agire in funzione del personaggio maschile: è evidente che il caso sia questo. Ma qui c’è un twist in più, che sembrerebbe rispettare e allo stesso tempo decostruire questo consunto topos. Il loro rapporto infatti è ambiguo fino alla fine: non si capisce se il patto finale stretto sia un lieto fine o una condanna, non è chiaro quanto Hal sia veramente libero, e quanto invece rimanga succube della dominatrice.

La zona grigia è molto estesa: Hal è ben felice di rimanere uno schiavo sessuale a vita, e anche Rebecca ne uscirebbe vincitrice, continuando l’unica relazione che la soddisfa e la motiva. Oppure, Hal diventa libero e Rebecca diventa una donna molto, molto ricca. In entrambi i casi, ne uscirebbero vincitori tutti. Il finale è emblematico: anche la sua messa in scena suscita molti dubbi, essendo un finale sui generis hollywoodiano, quasi parodico. E quindi l’ambiguità si sposta non solo sul piano tematico, ma anche su quello filmico.

In conclusione, Sanctuary è un ottimo esercizio di stile e un intrigante studio sul personaggio (anzi, personaggi), e sembra veramente un piccolo miracolo vedere un film americano indipendente ben riuscito in un mercato saturo di film della A24 o di autori ormai ripetitivi e stantii.


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Nato a Roma, studia attualmente al DAMS di Padova.
Vive in un mondo fatto di film, libri e fumetti, e da sempre assimila tutto quello che riesce da questi meravigliosi media.
Apprezza l'MCU e anche Martin Scorsese.

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