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Sei donne per l'assassino, una scena tratta dal film di Mario Bava

Sei donne per l’assassino, Mario Bava e un’innovazione lunga 60 anni

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12 minuti di lettura

Il 14 marzo 2024 compie sessant’anni Sei donne per l’assassino, uno dei film più influenti per il cinema come lo conosciamo.

È il 1964, è passato più di un decennio dal cinema del dopoguerra, quando la struggente corrente neorealista fa spazio a un nuovo tipo di cinema, alzandosi in volo come Mastroianni all’inizio del capolavoro felliniano . Negli anni ’60 l’inventiva del cinema europeo esplode: in Francia la Nouvelle Vague dei Cahiers du Cinéma stravolge tutti i canoni, in Svezia Bergman brucia pellicole scavando nel dualismo della psiche umana. Intanto, in Italia, si reinventa tutto. Fellini cambia per sempre il ruolo del regista nel cinema, Antonioni quello degli sceneggiatori, Leone prende il genere americano per eccellenza e lo italianizza, modernizzandolo attraverso l’epica.

Ma andando oltre il cinema d’autore e oltre il cinema kolossal, la categoria che avrà un ruolo fondamentale per il futuro del cinema contemporaneo è quella che veniva erroneamente definita come “cinema di serie b”, ovvero il cinema di genere. Negli anni ’60, Mario Bava cambia tutto, girando film horror, gialli, peplum, western e sci-fi che avrebbero influenzato innumerevoli autori a venire.

Dal gotico allo slasher, Sei donne per l’assassino cambia l’horror

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Nel 1960 Mario Bava conquista l’attenzione di tutti con il suo film d’esordio. La maschera del demonio è il cinema gotico degli anni ’30 che si modernizza, un’italianizzazione artigianale che diventa caposaldo del genere, un’opera divenuta grande partendo dal basso dei suoi mezzi di fortuna, poiché fatta con la classe e la maestria di un autore che sembrava girasse film da una vita.

Nel 1961 Bava gira due peplum, Gli invasori ed Ercole al centro della Terra; quest’ultimo è forse il primo esempio di cinema baviano, un’opera coloratissima e caratterizzata da atmosfere orrorifiche pur non essendo un vero e proprio horror. Nel cast anche Christopher Lee, un’icona internazionale del genere che si unirà nuovamente a lui nel 1963 ne La frusta e il corpo, thriller gotico a tinte imprevedibilmente erotiche. Sempre nel ’63 Bava gira anche I tre volti della paura (horror a colori con Boris Karloff) e La ragazza che sapeva troppo (ultimo film in bianco e nero, definito il capostipite del giallo all’italiana).

Bava chiude così la prima parte della sua carriera, con un film che definisce un genere, l’anno 0 di qualcosa che sarebbe diventato presto grande in Italia e che avrebbe influenzato il cinema internazionale. Nel 1964 gira il film che sembra l’unione di tutti i suoi film precedenti: l’animo gotico dell’esordio, i colori del primo peplum, l’eleganza de La frusta e il corpo, l’inventiva de I tre volti della paura e l’evoluzione del suo primo giallo. Mario Bava gira Sei donne per l’assassino: il giallo slasher che illuminò il mondo e cambiò per sempre il cinema moderno.

Sei donne per l’assassino, la Pop Art degli anni ’60 riflessa nel cinema

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Il fatto che Sei donne per l’assassino sia un’opera di rottura lo si nota fin dai titoli di testa. I tanti interpreti del film assumono pose plastiche, tra dei manichini. Tutti possibili vittime, tutti possibili assassini, tra corpi senza volto come l’assassino del film. Immobili tra luci colorate al neon, carrellate di immagini, come se lo spettatore camminasse in una mostra di Pop Art. Una nuova estetica. Accattivante, d’impatto, pericolosamente magnetica. In Sei donne per l’assassino, Bava attrae lo sguardo dello spettatore nel genere che per antonomasia lo fa distogliere.

Poi inizia il film: lo spettatore è tra gli alberi durante una tempesta. Nebbia, lampi, il rumore di un’insegna che sbatte per il vento. L’anima gotica vive nel cinema di Bava, ma una volta entrati nel castello non vi sono vampiri né fantasmi, bensì un atelier di moda. L’atmosfera si trasforma nell’immagine fashion della borghesia moderna, da vecchio classico cinema dell’orrore a una nuova visione da haute couture, una transizione folgorante, come se Bava volesse dire che con Sei donne per l’assassino si sarebbe passati dal vecchio al nuovo cinema: dalle creature fantastiche agli assassini reali, dal bianco e nero ai colori sgargianti, dall’horror gotico al giallo slasher.

Bava gira Sei donne per l’assassino con composizioni classiche, con movimenti di macchina eleganti che muovono lo spettatore all’interno di una scenografia automatonofobica. Fino a quel momento i colori accesi erano utilizzati poco, e perlopiù per trasmettere gioia – basti pensare a musical coloratissimi come Scarpette rosse, Cantando sotto la pioggia e West Side Story – ma Bava in Sei donne per l’assassino utilizza tutto quel che ha a disposizione per enfatizzare la tensione: la scenografia barocca, gli specchi, le ombre, le luci, i riflessi.

I tagli di luce tipici del cinema espressionista trovano forza in lampi al neon rossi, viola, verdi e blu. È un Bava aesthetic quello che costruisce la tensione, ma diventa grezzo nelle scene d’omicidio. Il regista di Sei donne per l’assassino, pur creando un assassino autore d’omicidi ingegnosi, non dà mai lustro all’atto della violenza, anzi rende queste scene anticlimatiche, marce e aggressive, in netta contrapposizione a quelle di tensione che risultano enfatiche e artistiche. È come se Bava prendesse le distanze dagli atti del killer, forse per far immedesimare maggiormente lo spettatore, che in scene violente realizzate in modo affascinante potrebbe distrarsi dal terrore (forse tifando addirittura per l’antagonista).

L’autore segue quindi la poetica di Hitchcock sull’intrattenere lo spettatore agendo con trucchi psicologici per renderlo sempre un partecipante attivo della storia; in Sei donne per l’assassino, ad esempio, chiunque può essere il killer. I personaggi sono tanti, e questi entrano in scena come se fossero quasi tutti esenti da alibi. Piccoli dettagli che arricchiscono l’intrattenimento, come un personaggio che dopo un omicidio entra in scena con il fiatone, oppure un altro che appare rivestendosi di fretta. Tanti piccoli indizi (o presunti tali) che possono far sospettare di loro, sviluppando più dubbi nella mente del pubblico e tenendo alta la tensione nel corso di ogni scena.

Come Sei donne per l’assassino ha influenzato il cinema

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Sei donne per l’assassino ha stravolto più generi e sottogeneri. L’horror classico assume nuove forme dopo la precisa caratterizzazione estetica dell’assassino, che diventa quindi maschera slasher, un serial killer in un mondo reale e in tempi contemporanei.

Per indicare l’influenza pop di Sei donne per l’assassino, basti pensare al character design dell’iconico Freddy Kruger nel Nightmare di Wes Craven. Si dice che l’autore statunitense abbia scelto di far indossare il cappello al suo killer dopo aver visto il film di Bava. All’influenza sull’horror slasher si unisce quella avuta sul thriller che diventa giallo (riconosciuto poi come giallo all’italiana), un genere entrato nell’immaginario collettivo globale con il cinema di Dario Argento. Quest’ultimo deve tanto a Bava anche sul piano estetico, dal vestiario dell’assassino ai su citati colori accesi divenuti marchio di fabbrica dell’horror glamour del regista di Suspiria.

Ma Bava influenzò tantissimi altri autori rinomati. Quentin Tarantino disse che in ogni sua inquadratura c’è il genio di Mario Bava. Vale lo stesso per Tim Burton, che deve tanto al cinema d’atmosfera del maestro italiano (fino alle citazioni plateali a La maschera del demonio nel suo Sleepy Hollow). L’autore di Sei donne per l’assassino è da individuare anche nell’estetica tipica del cinema di Nicolas Winding Refn, di Edgar Wright (principalmente in Ultima notte a Soho) e di Guillermo del Toro (su tutti nel suo Crimson Peak).

David Lynch invece sembra aver citato Operazione Paura in una delle scene più importanti di Twin Peaks (quella del doppelgänger nell’ultimo episodio della seconda stagione). L’infuenza fantascientifica è invece evidente nell’Alien di Ridley Scott, che deve tantissimo al capolavoro sci-fi baviano Terrore nello spazio. Ma le idee di Bava sono presenti anche in quelli che oggi vengono ormai definiti dei cliché nel cinema horror, ad esempio il telefono come arma psicologica dei killer negli slasher, una scelta stilistica presente per la prima volta ne I tre volti della paura.

Quest’ultimo ebbe un’influenza decisiva anche al di fuori dell’ambiente cinematografico, tanto che una band che in futuro avrebbe fatto la storia dell’heavy metal scelse il proprio nome grazie al titolo inglese letto sul poster di questo film: Black Sabbath.

Poi i fumetti di Mike Mignola, i romanzi di Stephen King, i film di John Carpenter e Francis Ford Coppola. Si potrebbe continuare all’infinito citando nomi illustri, ma l’impressione è che ci sia un po’ di Mario Bava in tutto quel che è stato il cinema – e di pari passo la cultura pop – dopo di lui, influenzando autori che hanno stravolto l’immaginario collettivo e che a loro volta sono diventati dei maestri per i registi contemporanei. Quando si parla di tarantiniano, burtoniano e argentiano, tutto ciò rientra nella macrocategoria baviana. E adesso immaginate il cinema odierno senza un precursore come lui. Sarebbe di certo meno pulp, meno colorato, meno iconico e meno ingegnoso. Insomma, meno vivo.


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Classe 1997, appassionato di cinema di ogni genere e provenienza, autoriale, popolare e di ogni periodo storico. Sono del parere che nel cinema esista l'oggettività così come la soggettività, per cui scelgo sempre un approccio pacifico verso chi ha pareri diversi dai miei, e anzi, sono più interessato ad ascoltare un parere differente che uno affine al mio.

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