Il racconto puro e reale di un vero dramma sociale, dove a vincere sono i sentimenti. Signs of Love, il primo lungometraggio del regista statunitense Clarence Fuller, racconta uno spaccato di periferia americana che si rifà a dei filoni cinematografici tipici del cinema indipendente d’oltreoceano. Dramma, amore, guerriglia e redenzione; un mix efficace ma soprattutto vincente. Vincitore del Premio Corbucci 2022 il film, distribuito da Nori Film in collaborazione con Fice, esce nelle sale italiane l’11 maggio.
Signs of Love, la redenzione di un uomo che si abbandona all’amore
Port Richmond, città di Philadelphia; un quartiere in cui culture differenti e agli antipodi fra loro sono costrette a convivere, o meglio a sopravvivere cercando (spesso con scarsi risultati) di non farsi sopraffare dalla famigerata legge della strada. Ecco, è questo lo scenario in cui veniamo immersi già dai primi fotogrammi del film che sembrano, perlomeno all’inizio, ricalcare in qualche modo l’incipit di Philadelphia (1993).
Ma se nel film caposaldo della filmografia degli anni ’90 (questo diretto da Jonathan Demme) venivano ritratte a intermittenza le due facce della metropoli della Pennsylvania, qui Fuller decide di concentrarsi solamente sulla facciata “degradata” della città. Ovvero la periferia.
Ed è proprio in questa periferia che si svolge la storia. Frankie (Hopper Jack Penn) è un giovane che vive intrappolato nella ragnatela del proprio sobborgo, e nel mentre sogna (quasi fosse una sorta di utopia irrealizzabile) un futuro migliore per sé e per i propri cari. Una situazione famigliare a dir poco disastrata, senza madre e senza una figura paterna (un tossicodipendente) che gli faccia da guida.
Professione spacciatore; e come se non bastasse Frankie si ritrova a dover mantenere la sorella maggiore (Dylan Penn), lei alcolizzata, e il suo amatissimo nipote adolescente che vede più come un vero fratello. Nulla che faccia pensare all’amore fin qui, ma l’arrivo di Jane (Zoë Bleu), una ragazza sorda di una famiglia benestante, per la quale Frankie prova subito un forte sentimento e con la quale instaura una relazione edificante, sembra cambiare le carte in tavola. Ma non tutto andrà nel verso giusto.
Un’esistenza che non regala niente e in cui tutto, anche la minima cosa, deve essere conquistata; magari lottando con le unghie e con i denti, e a volte anche con qualche altro tipo di arma. D’altronde vivere in un posto del genere non è mai facile, soprattutto se la periferia in questione è quella di una grande città in cui viene a crearsi un melting pot di filosofie della strada. Ognuno sopravvive come può e per l’amore, anche se ci troviamo nella cosiddetta City of Love, sembra non esserci spazio.
Ma è proprio quando tutto sembra perduto, o peggio ancora immutabile, che ci vengono forniti dei segnali, o meglio ancora dei segni, di possibile e definitiva rinascita. I cosiddetti “signs of love”, una redenzione dal difficile passato che traccia la strada per un futuro migliore.
Un film silenzioso e potente allo stesso tempo
È necessario ora passare a quella che è la vera forza di questo lungometraggio, ovvero la parte tecnica. La regia, nella sua semplicità, riesce a esprimere al meglio la crudezza della storia rappresentata. Una metodologia di ripresa che riporta indietro di un decennio, quando ancora facevano discutere le ultime opere cinematografiche di Larry Clark.
Ed è proprio Larry Clark, con la sua poetica fatta di immagini, a rappresentare (forse inconsapevolmente) un vero e proprio trasporto emotivo per Signs of Love. Tra droghe, vite difficili, passioni e lotta (e skateboard soprattutto) viene raccontata una storia umana reale e spesso messa in disparte, in subbuglio tra le difficoltà e i drammi personali.
Anche però la forma sembra rievocare quella che ha fatto di Clark un importante quanto discusso cineasta degli ultimi tempi. Clarence Fuller, infatti, segue le vicende narrate attraverso una ripresa “a mano”, conseguenza delle immagini vivide e realiste. Alcune riprese sono mosse, appositamente sbagliate, grezze. Come grezzo è anche Signs of Love; un diamante grezzo fatto di fotogrammi.
Un’opera, questa di Fuller, che si perde sia nei silenzi che nelle parole; i primi infatti rappresentano buona parte della narrazione. Un racconto cadenzato fondato sul non detto, a volte necessario, e sulle pause di riflessione; sulle musiche esterne, extradiegetiche per essere precisi, e raramente su dei lunghi dialoghi che scivolano via con il loro realismo.
Proprio a questo proposito il regista ha ammesso di essersi ispirato a Terrence Malick e alla “sua capacità di raccontare una storia senza molti dialoghi”; da qui anche l’idea della (co)protagonista sorda. Personaggio fondamentale quello di Jane, che prende per mano Frankie mostrandogli un futuro possibile.
E a questo proposito, grande plauso va fatto alle prove attoriali. Hopper Jack Penn, figlio di Sean Penn, riesce a immedesimarsi completamente nel suo ruolo donando, forse mosso anche da qualche verosimile esperienza personale, una vera anima a Frankie. Zoë Bleu, figlia di Rosanna Arquette, anch’essa presente nel film, ci offre una grandissima interpretazione.
“Per la dolcezza con cui il regista ha saputo guardare al dolore dei suoi protagonisti, che si oppongono al disagio con improvvisi cenni d’amore”, è questa la motivazione con la quale la giuria di Alice nella Città 2022 (presieduta dal regista Gabriele Mainetti) ha premiato Signs of Love con il primo Premio Corbucci. E non esiste miglior invito di questo per avvicinare alla visione di un film unico nel suo genere. Grezzo, semplice, essenziale eppure così vero e toccante.
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