Il 29 maggio Netflix ha accolto tra le sue serie la prima stagione di Space Force. I dieci episodi portano la firma di Steve Carell e Greg Daniels come produttori esecutivi e autori. Due nomi già noti nella produzione della celebre sitcom mockumentary The Office. In particolare, Steve Carell si ripropone come protagonista, distinguendosi per la sua raffinata esperienza comica.
Ma l’intera serie vanta una cerchia di volti conosciuti. A partire dal co-protagonista John Malkovich, fresco da The New Pope, nei panni di un elegante e strambo scienziato. Si aggiungono poi Lisa Kudrow (Friends), Jane Lynch (Glee) e Fred Willard (Modern Family), oltre alla ventiduenne Diana Silvers, già protagonista del recente thriller Ma, con Octavia Spencer.
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La trama di ‹‹Space Force››
L’input per la narrazione è da subito chiaro. Il Presidente vuole tornare sulla Luna entro il 2024, per fondare la prima colonia permanente americana, Habitat One. Ad occuparsene sarà la nuova sezione dell’Esercito chiamata Space Force. Alla sua guida, un generale pluristellato, Mark Naird (Steve Carell), prima appartenente all’ U.S. Air Force. Sembra però che nessuno prenda sul serio il nuovo dipartimento, nonostante gli ingenti fondi stanziati.
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Il repentino cambiamento porta il Generale, con al seguito famiglia, a trasferirsi da Washington in Colorado. In una bianchissima sede in pieno deserto, Mark Naird gestisce le operazioni con la consulenza scientifica del Dott. Adrian Mallory (John Malkovich) e del suo team. Tra aspiranti astronauti, scimmie spaziali e lanci sperimentali, riusciranno i nostri eroi a soddisfare i desideri del Presidente?
Una realtà non troppo velata
L’evoluzione narrativa muove da un riferimento reale. Si tratta del progetto, risalente a più di due anni fa, del Presidente americano Donald Trump di creare un corpo militare dedito totalmente a un programma spaziale. Così nel dicembre 2019 nasce la United States Space Force, con il suo quartier generale (Peterson Air Force Base), per l’appunto, in Colorado.
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Nel marasma di tweet presidenziali, il Programma Spaziale rimpolpa l’informazione pubblica. Ad accompagnarlo, un logo che richiama quello di Star Trek e un’impostazione ancora da definire in toto. C’è già però una base attiva, un generale al comando e ottantasei tenenti formati. Un assetto che si è evoluto sorprendentemente a pari passo con la serie.
Una comitiva multietnica
A tenere le redini della Space Force fittizia c’è la presenza militare e nazionalista di Mark Naird. È un uomo formato dalla rigidità dell’addestramento militare e dal pensiero conservatore. Dice no al matrimonio aperto con la moglie, nonostante glielo proponga lei dal carcere in cui sta scontando un misterioso grave reato. Ma l’impostazione marmorea non nasconde la tenerezza incondizionata che Mark nutre per la famiglia e la fiducia verso i suoi collaboratori.
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Sono una cerchia multietnica in ironica contrapposizione al tipico militare americano wasp. Così il vice del Dr. Mallory è Chan Kaifang (Jimmy O. Yang), specializzato in Astrobotanica, mentre il capitano della missione spaziale è Angela Ali (Tawny Newsome). Vuole essere una degna rappresentante in quanto prima donna afroamericana sulla Luna e si consuma nell’incapacità di trovare la frase perfetta per l’allunaggio. Così il suo iniziale «It’s good to be back on the Moon» diventa l’iconico e subito virale «It’s good to be black on the Moon».
Quando la comicità è indicizzata
La serie costruisce il suo appiglio comico sull’inefficienza dell’amministrazione trumpiana. Questo porta a una più raffinata comicità per chi conosce bene la politica americana. Ad esempio, nel riferimento a Anthony Scaramucci, direttore delle comunicazioni della Casa Bianca per soli dieci giorni nel 2017, con il suo alter ego finzionale Tony Scarapiducci (Ben Schwartz).
La cornice narrativa è però intessuta di perle più generaliste, che vestono bene i personaggi e si addicono al tono da non prendiamoci sul serio del progetto. Esplodono nei primi episodi, trascinando il pubblico dietro al fascino di Steve Carell. Poi, però, si temperano su una comicità soffusa, quasi accessoria nella sfrenata corsa verso l’allunaggio degli episodi finali.
Cosa funziona e cosa no
In una poliedricità di eventi e situazioni surreali, Space Force è piacevole. La visione è trainata da quella comicità conosciuta e consolidata, che si ritrova nella figura di Steve Carell. Ci soddisfa vederlo ballare sulle note di Kokomo dei Beach Boys, quasi quanto in quella scena di Crazy, Stupid Love, in cui si getta dall’auto in corsa. E anche la sua frase, rivolta agli impreparati e spauriti astronauti «E il dovere? Non dovrebbe bastare quello a spronarli?», ci restituisce l’esatta immagine del Generale militare che vorremmo vedere.
Forse, però, è troppo presto per trattare un tema che si sta ancora consolidando al di là dello schermo. Tra bombardamenti su Twitter e colonizzazione di galassie, la serie centra il tema, ma rischia di bruciarlo in un’unica stagione. Come un uroboro, un serpente che si mangia la sua stessa coda. In questo caso, però, il finale resta aperto, lasciando presagire una seconda stagione come nuovo esperimento da giocarsi.
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