Arriva su Amazon Prime Video Suspiria di Luca Guadagnino, remake dell’omonimo cult di Dario Argento datato 1977. Basterà la fama (inter)nazionale del regista di Call Me By Your Name a salvarlo dalle critiche dei più conservatori?
Dopo un’accoglienza tiepida al festival del Cinema di Venezia e una distribuzione quasi nulla nelle sale, Suspiria si pone al vaglio degli spettatori di Amazon, i quali potranno ridare vita a una pellicola ingiustamente ignorata.
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L’espansione di un’idea
Parlare dell’articolata opera con protagoniste Tilda Swinton e Dakota Johnson appare complesso quanto lo fu, molto probabilmente, per la pellicola da cui essa si ispira. Anche se per motivi totalmente opposti. Per quanto Suspiria sia infatti figlio dell’amore del suo regista per la pellicola del 1977, come più volte ribadito e poi confermato nei titoli di testa («tratto dalla sceneggiatura di Dario Argento e Daria Nicolodi»), Guadagnino approfitta del soggetto originale per imporre visioni personali, intricate e spesso disturbanti.
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La storia quindi non si allontana nell’idea da quanto già narrato dal maestro dell’orrore, seppur essa venga poi capovolta ed espansa in un immaginario maggiormente esplicito e dai tratti dichiaratamente fantastici.
Più spinto, più crudo
La protagonista del Suspiria di Gudagnino è così una Susy Bannion (Dakota Johnson) meno indifesa e più intrigante, giunta a Berlino per prendere parte alla controversa e prestigiosa compagnia di ballo, la Markos Tanz Company, e presto incastrata in una misteriosa vicenda che coinvolge l’intero istituto. Laddove Argento realizzò un mondo altro e parallelo attraverso l’uso di una fotografia che imponeva la prestigiosa Accademia di danza, luogo del racconto di entrambi i film, su ogni altra cosa, Guadagnino, senza mai mostrare totali dell’edificio, mischia eventi interni e voci esterne, plasmando il mondo misterioso dell’accademia attorno alla Berlino in rivolta del 1977.
L’oscurità degli eventi, sempre più crudi e orrorifici nell’avanzare del racconto, sembra così impattare con la realtà, penetrando più a fondo nell’animo dello spettatore e ponendo in accusa uno spazio più ampio e credibile. A fare la parte di uomo di mezzo in questa complessa architettura narrativa è l’indifeso Dottor Josef Klemperer (Lutz Ebersdorf), interessato a scoprire cosa stia accadendo nell’accademia berlinese che ha fatto scomparire una delle sue più strane pazienti. È lui il personaggio da tener maggiormente sotto d’occhio, riconoscendone un doppio dello spettatore che, capendo solo tratti e accenni dell’intricata vicenda, si trova immerso sempre più in un qualcosa che dal semplice presagio si fa pura e confermata malvagità.
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Ci muoviamo quindi prima fuori dal centro del racconto, a Berlino, curiosi e interessati, poi nel mezzo, tra le rivolte e gli angoscianti passi di danza di Susan, ed infine completamente dentro, in una danza eccentrica che mischia mitologia e stregoneria in un montaggio paralizzante. Un’evoluzione percepibile solo a posteriori, la quale definisce l‘opera di Guadagnino come un lungo miraggio da cui è impossibile svegliarsi in itinere.
Spettatori del Sabba
Trasformare le condizione di partenza in pericolose armi di terrore è quanto Suspiria architetta con una regia che alterna movimenti frenetici a rallentamenti onirici. Si passa così dalla danza al sabba, mischiando le due, esattamente come vorrebbe ogni misterico credo, e rendendo la pellicola un unico grande rito. Non sarebbe dunque neanche lecito analizzarne i sei capitoli e l’epilogo che ne guida la visione, perché a spezzettarne l’anima si compie l’eccidio di quell’unico preciso passo di danza che altro non è qui che l’intero spettacolo. Quindi ogni frammento di Suspiria comprende l’intera storia, anticipando il finale ad ogni movimento di Dakota Johnson e poi allontanandosene in velocissimi cambi di prospettiva. Assistiamo così a una danza, libera e improvvisata, scritta e composta.
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La rivisitazione di Suspira da parte di Guadagnino arriva a compimento dopo dieci anni di complessa gestazione, lasciando allibiti e a tratti sconcertati. Il lavoro svolto da Guadagnino conferma infatti non solo l’abilità sua e delle attrici, ma anche un amore sentito, se non sofferente, per le rappresentazioni forti. Lontano dall’immaginario iconografico di Argento e più vicino al Mother! di Aronofsky; ossessivo con i corpi e senza pietà con gli spettatori.
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