Sineddoche: procedimento linguistico-espressivo o figura retorica che consiste nella sostituzione tra due termini in relazione quantitativa: la parte per il tutto o viceversa, il singolare per il plurale o viceversa, il genere per la specie o viceversa, il contenente per il contenuto.
Synecdoche, New York è la storia di Caden Cotard (Philip Seymour Hoffman) regista teatrale depresso e ipocondriaco, che grazie alla vittoria del prestigioso premio MacArthur, decide di allestire la sua più grande opera, un’opera che sia vera e brutale, ma che si rivelerà fallimentare e destinata a restare incompiuta.
Il film, scritto e diretto da Charlie Kaufman nel 2008, fu definito da Roger Ebert il miglior film del decennio. Le premesse per aspettarsi un capolavoro c’erano tutte: nonostante la scrittura sempre intelligente di Kaufman, la recitazione sempre meravigliosa di Hoffman, il film fu però un flop. In Italia, per altro, arrivò solo nel 2014, sfruttando malevolmente l’eco della morte di Philip Seymour Hoffman.
Introduzione all’opera
Synecdoche, New York non è un film facile, di quelli che arrivano subito alla pancia dello spettatore. No, sicuramente. Anzi, si potrebbe azzardare che necessita di più visioni per capire davvero la portata dell’opera, catturarne il discorso in maniera completa.
Nonostante l’autore non faccia segreto di che cosa voglia parlare, visto che il significato è esplicitato già nel titolo, il film è talmente ricco e stratificato che può risultare ostico. Ma certo è Kaufman in tutto e per tutto: è intellettuale, paranoico, un po’ noioso e logorroico, malinconico, triste e vero.
Kaufman nei panni di sceneggiatore, supportato dalla regia di registi vicini a lui per tematiche e visioni (Spike Jonze e Michel Gondry), aveva già dimostrato di saper articolare un discorso in cui reale e surreale si trovano uniti sullo stesso piano, calati in un contesto plausibile e veritiero. Synecdoche, New York è il primo progetto completamente suo ed è anche il più pessimistico, non edulcorato da finali leggeri e assolutori. Kaufman dimostra di avere le capacità di creare un prodotto coerente e ben fatto, anche se è comunque la sceneggiatura a detenere la maggior importanza. Capacità che verrà ribadita con il successivo Anomalisa del 2015 e che si spera venga replicata con il prossimo progetto, la cui uscita è prevista a settembre per Netflix.
Charlie Kaufman: autore egoriferito
Charlie Kaufman è tra gli autori che propendono sempre per articolare un discorso egoriferito tramite cui approfondire concetti colti e ricercati. Centrale nelle sue sceneggiature è l’introspezione psicologica, l’addentrarsi nelle menti dei protagonisti, che nel caso di Synecdoche, New York dà vita a un flusso di coscienza, una visione unica e personale sul mondo caratterizzata dall’incapacità di adattarsi alla vita e di accettare la morte. Un flusso di coscienza personale e introspettivo di un uomo contraddistinto da un egocentrismo acuto. Ma chi è questo uomo? Charlie Kaufman? Caden Cotard?
Kaufman è esattamente come i suoi protagonisti: troppo intellettuale e cervellotico, forse ansioso e ipocondriaco, afflitto da un male di vivere che si ripercuote sulle sue opere, intrise tutte, quelle reali e quelle di finzione, da un pessimismo di fondo inequivocabile. Non riesce a fare altro che parlare di sé e le sue opere non sono che la messa in scena di ossessioni e paranoie sulla vita e sulla morte.
Caden Cotard e il mondo attraverso di lui
Attraverso il personaggio di Caden Cotard assistiamo all’operare di due personalità grandiose, quella dell’attore che lo interpreta e quella dell’autore che lo ha creato. Philip Seymour Hoffman rende il dolore della malinconia del suo personaggio palpabili. É sempre stato un maestro nel conferire spessore e credibilità a qualsiasi personaggio interpretato e in Synecdoche, New York è un ottimo protagonista, impersonificazione dolorosa del dubbio e incertezza di chiunque di fronte alla vita, rappresentazione camaleontica della paranoia di Kaufman. Infatti la seconda personalità a trasparire (e a prevalere) è quella di Kaufman che attraverso il suo protagonista articola un discorso molto personale.
Kaufman crea un alter ego in piena crisi esistenziale, per parlare a tutti noi di noi stessi: Caden Cotard, il protagonista del film, la sineddoche evocata dal titolo, l’uno che rappresenta il tutto, il singolare che rappresenta la pluralità.
Caden Cotard ci mostra il mondo attraverso i suoi occhi e i suoi sensi. La sua percezione della vita simboleggia la soggettività di ognuno. La visione di Caden Cotard è confusa e allucinatoria. In lui realtà e immaginazione si confondono, i programmi televisivi hanno una sua riproduzione come protagonista, la psicologa parla direttamente a lui nel suo libro e lo segue in viaggio, la casa della sua irraggiungibile amante è perennemente in fiamme, ma non è un problema per nessuno, basta scegliere come morire in fondo.
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Kaufman come già aveva fatto in Eternal Sunshine of the Spotless Mind al fianco di Michel Gondry, proietta nel mondo l’interiorità dei suoi protagonisti, un modo di comunicare quanto tutto sia arbitrario e soggetto a sovrainterpetazioni. L’assurdo e il surreale appaiono plausibili, tutto ha perfettamente senso di esistere nel mondo di Caden Cotard perchè è lui stesso a dargli un senso e a trasmetterlo, senza spiegazioni, allo spettatore.
Proiezione di sé e metanarrazione
La proiezione di sé che Kaufman attua in Synecdoche, New York riecheggia quella precedente e maggiormente esplicitata vista in Adaptation, Il ladro di orchidee (Spike Jonze, 2002). L’opera, infatti, può considerarsi un precedente per Synecdoche, New York. L’autobiografismo è palese dal momento che ricalca la vita di Kaufman in quel momento. Parla di uno sceneggiatore che non riesce ad adattare un libro e si inserisce nella sceneggiatura che parla di uno sceneggiatore che non riesce ad adattare un libro (e così via). Il rimando è urlato in Synecdoche, New York in cui attori che interpretano persone reali vengono rappresentati a loro volta da altri attori e cosi via. Rappresentazioni dentro rappresentazioni. Metanarrazione, metadiscorso, cosa c’è di più meta di Adaptation, Il ladro di orchidee? Di Synecdoche, New York?
Nella storia raccontata abbiamo un regista teatrale che vuole creare una rappresentazione della vita per trovarle un senso, per capire se stesso. Nella realtà abbiamo un regista cinematografico che per formulare un discorso sul senso della vita, la morte, decide di raccontare la storia di un regista teatrale che vuole creare una rappresentazione della vita per trovarle un senso, per capire se stesso.
C’è sempre una metanarrazione con Kaufman che attribuisce ai suoi protagonisti caratteristiche che gli appartengono, per cercare di capire lui stesso, forse, il ruolo dell’arte e del cinema. Cinema in quanto rappresentazione della vita, di innumerevoli possibili vite, in quanto mezzo più indicato alla riflessione sul senso stesso della vita.
Il senso della vita, la morte
La domanda che nasce spontanea è se sia possibile rappresentare tramite il cinema, il teatro, la narrazione, il concetto universale di vita. È possibile fare un discorso generale ignorando il personale? Kaufman riesce solo ad mettere in scena un discorso singolare, filtrato attraverso Caden Cotard. Raccontare la vita di Caden Cotard, quindi, è il pretesto per raccontare il senso della vita, la morte. Nel mezzo ci sono tutte le idiosincrasie, le paranoie, le schizofrenie, i timori, gli amori, le paure di un uomo comune.
Synecdoche, New York è un film sulla morte, è detto chiaramente. Si apre con un programma radiofonico in cui viene recitata una poesia sul primo giorno di autunno, la stagione del tramonto, e si chiude simbolicamente con una parola, un ordine: «Muori». Caden Cotard è un uomo che ha paura della morte, teme di stare per morire, anche se assistiamo alla morte di tutte le persone a lui care tranne che alla sua. Ma la morte è ineludibile e nemmeno Caden Cotard può sfuggirgli, anche se deve aspettare l’ordine della regista per poter morire.
Tutto nel film rimanda alla morte: il deteriorarsi del corpo e della mente del protagonista, il mondo fuori dal teatro che annega sempre più in una distruzione che non ci è spiegata.
«La fine è scritta nell’inizio» dice Hazel, racchiudendo il significato del ragionamento descritto da Kaufman: nascendo siamo tutti destinati a morire, quello che avviene nel mezzo sono solo vani tentativi che ognuno di noi opera per sfuggire a questo destino. Caden Cotard per dare un senso alla propria vita decide di mettere in scena uno spettacolo che ha per soggetto la vita stessa nel suo divenire. Un’opera che non riesce a trovare una fine se non con la morte del suo creatore che, fattosi attore, deve prendere l’ordine dalla sua regista per poter morire e concludere la sua grandiosa, disastrosa, dolorosa opera.
Ma la rappresentazione della vita attraverso l’opera di Caden Cotard non è solo un modo per sfuggire all’oblio della morte, è anche il segreto della vita. Ogni uomo crea rappresentazioni di sé, proiezioni di quello che crede di essere, per mostrare al prossimo solo ciò che vuole e non ciò che è. È quello che fa Kaufman allestendo un gioco di rimandi in cui il mezzo usato per mettere in scena la riflessione è la riflessione stessa.
Synecdoche, New York come sineddoche della vita è un’opera dall’impianto pessimistico e dal finale già segnato con cui Kaufman ci consegna il suo pensiero sulla vita.
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