Il mondo digitale ce lo ha insegnato durante il lungo periodo della pandemia, il nostro bisogno intrinseco, quello di custodire i rapporti sociali è forte e non si può reprimere, così la tecnologia accorre in aiuto per legare quelle connessioni altrimenti destinate a svanire. Ed è proprio su questa necessità di connessione umana che riflette Tapirulàn, il film d’esordio alla regia di Claudia Gerini che arriva in sala dal 5 maggio per Milano Talent Factory.
Tapirulàn: scappare senza sosta
Claudia Gerini è Emma, una counselor online che offre la propria assistenza telematica su un’applicazione. Un epilogo familiare a tutti noi, basti guardare alle decine di nuovi modi di lavorare e interagire nati durante il periodo di una delle più grandi chiusure dell’umanità. Assieme alle nuove modalità di ordinazione di pasti, medicine e fruizione di sessioni di allenamento da remoto, sono spuntati nuovi metodi di sostegno psicologico a distanza per supportare i pazienti in terapia.
Via le comode poltrone, via le rassicuranti atmosfere degli studi di psicoterapia e via anche le vibrazioni empatiche del contesto riabilitativo. Emma può fare a meno di tutto eccetto del suo strumento di evasione mentale, il Tapirulàn.
Le giornate di Emma sono maratone di corsa senza un podio finale. Reperibile h24 la counselor si mette a completa disposizione dei suoi pazienti in qualsiasi momento senza scendere mai dal tappeto rotante. Il Tapis Roulant si offre alla protagonista come l’illusione più vicina a quell’idea di moto ininterrotto in avanti senza però andare davvero in quella direzione. Correre restando fermi.
Seduti su mondi instabili
Fin dalle prime battute di Tapirulàn è chiaro come l’impalcatura di quella stanza sia fragile, quella di Emma è un’esistenza costruita su una struttura instabile, destinata ad ondeggiare ad ogni spinta emotiva. Il Tapirulàn è l’unico strumento che permette all’impalcatura emotiva di Emma di mantenere quel fragilissimo equilibrio su cui si erge la sua stessa salute psichica. La chiama bioenergetica, biodinamica, ed è su questo bisogno di aggrapparsi a tecniche psicocorporee che è ancorato tutto il suo micro universo.
Parole come vitamine, dopamina, endorfina, serotonina si offrono come il sostegno psicologico della counselor stessa. I supporti organici sono gli espedienti a lei necessari per autoconvincersi che è tutta una questione di molecole e giuste dosi per poter sopravvivere e affrontare le conseguenze di una vita segnata da un gravissimo trauma. La vita di Emma procede senza sosta, su quel fragile equilibrio, fino a quando il più piccolo stimolo inizia a far vacillare le sue fragili certezze.
Lo schermo protettivo di Tapirulàn
È una chiamata, un nome, Chiara, sua sorella che da anni prova a rintracciarla senza successo perché la counselor un giorno se ne è andata credendo di poter lasciare dietro di sè un grande dolore e tutto ciò che è legato ad esso.
L’esile mondo di Emma inizia a sgretolarsi a partire proprio da questa prima chiamata. La vita vera, quella che esige di essere vissuta scivola pretenziosa tra le crepe della sua gabbia/armatura. Emma ha creduto di poter lasciare il suo trauma fuori da una stanza e così ha iniziato a correre scappando da quel problema che le ha rovinato la vita. L’esistenza della protagonista è rimasta bloccata ad un tragico evento e tutto quello che ha tentato di costruire da quel momento in poi è destinato a vacillare ad ogni impulso.
Il suo è un micromondo fatto di scelte mai prese, azioni mai concrete: una libreria arrivata e mai montata, una tinta per la casa mai scelta, la spesa comperata online. Il mondo e la vita restano fuori dalla sua stanza mai davvero abitata, le grandi vetrate lasciano fuori un mondo che procede in avanti mentre il suo continua ad andare indietro senza che lei se ne accorga.
Il trauma al centro di una vita appannata
Il grande segreto che si cela dietro Tapirulàn non è soltanto il cuore della storia di Emma ma il motore reggente della stessa narrazione. Il cinema dell’isolamento per quanto straordinario nella sua strettissima morsa ambientale, necessita, per supportare una scelta tanto ambiziosa, di un piano d’azione decisivo e totalizzante ma soprattutto di una struttura di ferro per i dialoghi.
In Tapirulàn è proprio questa parte fondamentale a far crollare tutto l’impianto del film. Il presupposto di impegnarsi in un progetto tanto complesso è apprezzabile e molto coraggioso ma forse inaccessibile per una regia ai suoi primi vagiti. La Gerini aveva una sola stanza a disposizione e in questa avrebbe dovuto metterci tutta la vita umana di cui quell’angolo di mondo necessitava.
La resa emotiva è stata così soltanto accarezzata e mai centrata, tutta l’emozione non è soltanto scivolata ma è caduta facendo un rumore imbarazzante. La counselor ascolta storie e condizioni pesantissime come tentati suicidi, abusi domestici e sensi di colpa. Tutto questo fardello umano veste però i panni del grottesco: pazienti ridotti a macchiette imbarazzanti e stereotipate fino all’ inconcepibile. La counselor non è da meno poiché a sostegno di queste grandi disgregazioni emotive interviene con poche e semplici battute prese direttamente dall’abecedario di psicologia elementare.
Un progetto ambizioso mal riuscito
L’inappetenza ai rapporti di contatto reale è sostituita dal tocco immateriale del supporto tecnologico, i dispositivi mediali come smarthone, Alexa e mega pad touch del tapis roulant invadono la camera spoglia di prospettive.
Con cadenza regolare si danno il cambio sovrimpressioni di messaggistica istantanea rendendo il pronostico drammatico iniziale di Tapirulàn totalmente fuori scala e soprattutto fuori contesto. L’intento drammatico viene via via svilito in primis dai dialoghi privi di organicità, poi dall’esperienza visiva teen che annienta ogni tensione drammatica.
A restare ferma è anche la presentazione di Emma, infatti, sin dalle prime battute, è evidente come la costruzione del personaggio risulti inefficacie e poco approfondita. A sopperire a questo vuoto subentra però l’interpretazione di un’attrice come la Gerini, che può ormai considerarsi distintamente poliforme. Apprezzatissima soprattutto nella sequenza di un attacco di panico di Emma, che oltre ad essere sostenuta da una prestazione attoriale ad hoc vive di profondi respiri anche sul piano visivo restituendo la componente intima e dolorosa di tale momento.
Seppur l’approccio iniziale non sia stato dei migliori, la narrazione ha creato una forte aspettativa sulla ricerca della fonte del dolore della protagonista. Nel film il sistema ricerca–ricompensa viene placato ma non risolto del tutto. Il finale di Tapirulàn si perde infatti in uno scioglimento inappagante e inefficiente. Emma è scesa dal Tapirulàn ed è pronta ad affrontare la persona che le ha sconvolto la vita, ma anche in questo caso l’epilogo si aggiunge alla lista delle criticità dei dialoghi. Un conflitto irrisolto e scarno, nessuna emozione reperita.
L’unica cosa di cui siamo certi è che Emma è pronta a far entrare il cielo nella sua stanza, la tinta per le pareti è stata scelta: azzurro cielo.
Seguici su Instagram, TikTok, Facebook e Telegram per sapere sempre cosa guardare!
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!