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Tatami, il judo come lotta all’oppressione e desiderio di libertà

Tatami, il judo come lotta all’oppressione e desiderio di libertà

6 minuti di lettura

Presentato nella sezione Orizzonti all’80° Mostra del Cinema di Venezia, Tatami è un film diretto da Guy Nattiv, regista di Golda e premio Oscar nel 2019 per il Miglior Cortometraggio, e Zar Amir Ebrahimi, vincitrice del Prix d’interprétation féminine al 75° Festival di Cannes, grazie alla sua interpretazione nello straordinario Holy Spider di Ali Abbasi. Si tratta oltretutto della prima storica collaborazione tra un regista israeliano e un’iraniana, in un film dal forte impegno politico, riflesso di una protesta da cui Zar Amir Ebrahimi non si è mai sottratta, facendosi anzi portavoce dell’urgente messaggio di denuncia nei confronti del regime iraniano.

Protagonisti della pellicola sono, su tutti, Arienne Mandi, Zar Amir Ebrahimi, Jaime Ray Newman, Nadine Marshall, Ash Goldeh e Mehdi Bajestani, volti di una storia profondamente radicata all’interno del momento storico in cui ci troviamo, di una riflessione di disarmante attualità.

Tatami, tra thriller e film sportivo

Arienne Mandi e Zar Amir Ebrahimi in Tatami

Ambientato quasi esclusivamente a Tbilisi, in Georgia, Tatami segue la judoka iraniana Leila durante il Campionato del mondo di judo, che potrebbe portare per la prima volta nella storia una medaglia d’oro all’Iran. Affiancata dall’allenatrice Maryam e dalle compagne di squadra, Leila affronta i primi incontri con la consapevolezza e l’ambizione di poter raggiungere un risultato storico, sorprendendo tutti per determinazione e capacità. Le sue speranze sembrano però sgretolarsi quando Maryam riceve una chiamata dalla Federazione iraniana in cui, sotto imposizione della Repubblica Islamica, le viene intimato di ritirare Leila dalla competizione, per evitare che possa affrontare un’atleta israeliana.

Da questo momento Tatami compie la propria muta, trasformandosi in un thriller perfettamente bilanciato, in cui Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi riescono a gestire magistralmente la tensione, concentrandosi sullo stato d’animo di Leila, sul suo costante e inevitabile conflitto interiore, tra il desiderio di libertà e il terrore per quelle che potrebbero essere le conseguenze della sua disobbedienza. 

Leila infatti non ha intenzione di assecondare l’imposizione che le viene fatta, di vanificare tutti i suoi sforzi proprio nel momento in cui il traguardo sembra così vicino. Non ha intenzione, per l’ennesima volta, di vedersi sopraffare da un’ideologia che non le appartiene, di sopportare che le vengano sottratti i propri diritti. In lei arde il fuoco della rivoluzione, il desiderio di combattere l’ingerenza di un regime liberticida, ma ogni secondo trascorso su quel tatami grava su di lei come un macigno, togliendole il respiro. D’altronde non c’è in gioco soltanto la sua vita, ma anche quella di tutte le persone a lei più care.

La lotta femminile come metafora

Un'immagine di Tatami, film di Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi

Tatami è certamente un film sportivo, ma soprattutto è un film politico, che si serve del judo per farsi in realtà metafora della lotta delle donne iraniane contro il regime, un tema che Zar Amir Ebrahimi aveva già affrontato in Holy Spider, ma soprattutto una protesta che sostiene pubblicamente. Non è un caso evidentemente che le due protagoniste della pellicola siano donne, perché anche se Tatami non abbraccia il tema esplicitamente, la riflessione sulla condizione femminile in Iran è comunque chiaramente leggibile. Così come non sono casuali le dinamiche e il contesto che permettono una sovrapposizione tra il personaggio di Leila e quello di Maryam. 

Entrambe infatti sono donne che combattono o hanno combattuto, ma se una ha accettato, almeno inizialmente, di sottomettersi al regime, l’altra non ha nessuna intenzione di farlo, semplicemente perché comprende quanto quella lotta valga molto più di una medaglia. 

Il simbolismo con cui Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi donano profondità a Tatami, inserendola appunto all’interno di una dimensione fortemente politica, è legato ai gesti di Leila e alle sue decisioni. Così, l’atto di togliersi l’hijab, sebbene nel contesto del film non abbia questa connotazione esplicita, diventa un gesto rivoluzionario, un’esaltazione di quelle proteste che in Iran costano la vita a centinaia di donne. 

Quella che Leila intraprende è la lotta di tutte le donne iraniane, è una ribellione che, appunto, può costarle persino la vita, ma anche ergerla a esempio per la collettività, a simbolo di una crescente ribellione. La tela che Guy Nattiv e Zar Amir Ebrahimi dipingono non è soltanto una metafora della lotta all’oppressione, ma soprattutto un grido di rivolta che attraverso lo schermo percuote l’animo dello spettatore.


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Sono Filippo, ho 22 anni e la mia passione per il cinema inizia in tenera età, quando divorando le videocassette de Il Re Leone, Jurassic Park e Spider-Man 2, ho compreso quanto quelle immagini che scorrevano sullo schermo, sapessero scaldarmi il cuore, donandomi, in termini di emozioni, qualcosa che pensavo fosse irraggiungibile. Si dice che le prime volte siano indimenticabili. La mia al Festival di Venezia lo è stata sicuramente, perché è da quel momento che, finalmente, mi sento vivo.

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