Terrence Malick è riuscito a raffinare uno stile personale, unico e inconfondibile. L’ha fatto attraverso riprese in grado di mostrare la natura mediante movimenti di macchina straordinari, sapientemente orientati a restituire nella ripresa cinematografica al contempo la semplicità e il simbolismo poetico dei gesti corporali, delle pose, dei contatti fisici e persino delle interazioni ludiche dell’essere umano.
La filosofia di Terrence Malick
Il regista statunitense è prima di tutto un uomo di pensiero, che vive la spiritualità e un dannunziano sentimento panico di fusione con la natura. In altri termini, Malick non ritiene che l’essere umano sia una entità privilegiata della natura, ma un essente che abita in quella straordinaria armonia risplendente che è la natura nel suo complesso, oggetto privilegiato dei suoi film. Malick non prova un sentimento d’amore ingenuo per la natura, ma piuttosto un’ammirazione e una riverenza mistica per essa, accresciuta e raffinata dai suoi studi di filosofia.
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Il cinema di Malick si presenta, quindi, essenzialmente come la rappresentazione filmica del panteismo naturalistico spinoziano (in cui la natura è concepita come una sostanza organicistica, ricca, variegata e ordinata) e come un’armonica estetica dell’uso dei corpi e delle emozioni più pacate, intime e riflesse che l’essere umano è in grado di provare. Dietro all’attività di cineasta di Terrence Malick ci sono infatti profonde esigenze filosofiche. Per fare un esempio, la questione dell’origine del male, uno tra i maggiori topoi filosofici, sarà probabilmente il tema del suo prossimo film, The Last Planet, che verterà sulle vicende bibliche gesuane.
Presupposti antropologici
Alla base dell’attività cinematografica di Malick ci sono anche elementi etno-antropologici. Ad esempio, la rappresentazione di antichi giochi andati perduti nella modernità, che nella loro semplicità mostrano la genuina autenticità dell’essere umano. I film di Malick sono l’espressione materiale e artistica di indagini filosofiche e di rappresentazioni antropologiche, come per un filosofo di professione lo è il libro o l’articolo in cui ricostruisce e dà, appunto, forma materiale agli esiti delle proprie riflessioni. Malick si laureò ad Harvard in filosofia, lasciò poi gli studi e trovò nel cinema l’ambito in cui esprimere la propria vena filosofica.
I suoi film sono soprattutto risultati di riflessioni e studi filosofici. Per questo motivo, in molti casi, Malick ha potuto realizzare film a prescindere dalla narrazione di una storia con un inizio e una fine. Ed è stato in grado di girare la docu-fiction Voyage of Time, in cui mostra l’origine e lo sviluppo della vita dal proprio punto di vista.
Negli ultimi film di Malick le singole sequenze e talvolta il singolo fotogramma contano più del film nel suo complesso, non essendo propriamente parti di esso come elementi costitutivi di un intero organico, ma frammenti a sé stanti con un senso e una ragion d’essere autonomi. Questo aspetto, che ritroviamo tanto nel cinema di Federico Fellini che in quello di Paolo Sorrentino, è segno di una regia fondata sulla realistica osservazione del mondo e della realtà, la quale non è mai un insieme di eventi che hanno un filo conduttore, come avviene nella narrazione di una storia di finzione.
Ma piuttosto frammenti – à la Joyce – di eventi, di situazioni, di incontri, di esperienze in cui il principio di causalità ha durata breve e limitata senza esaurire la totalità delle manifestazioni del reale e senza produrre gli sviluppi in cui la realtà si dispiega.
Oltre Soggetto e Sceneggiatura
È stato il filosofo David Hume a mettere in chiaro come la causalità non sia rinvenuta di fatto nelle cose stesse, ma che invece viene inferita dall’intelletto umano sulla base del modo in cui esso ha la predisposizione di connettere i fenomeni nella breve durata del tempo e nella prossimità dello spazio.
Malick sembra aver recepito la lezione di Hume e, con l’intenzione evidente di descrivere le cose nel modo in cui sono di per sé stesse – intendendo l’essere umano come una delle entità naturali che sta insieme alle altre (facendo propria, a suo modo, la nozione di gettatezza heideggeriana) – scrive e gira i suoi film a prescindere dagli elementi fondamentali del cinema, quali una sceneggiatura precisa e strutturata e la presenza del soggetto. Nei film The Tree of Life, To the Wonder e Knight of Cups, il soggetto è piuttosto sostituito dalla trasposizione filmica di contenuti filosofici espressi attraverso le riflessioni discorsive della voce narrante e mediante esposizioni di estetiche corporali e di idilli naturalistici.
I passaggi più importanti per la realizzazione di un film di Malick sono, dunque, i movimenti di macchina, l’organizzazione scenografica delle riprese pensate in relazione alle condizioni ambientali e atmosferiche (è nota la sua passione per la Golden Hour), il montaggio, e il lavoro di post-produzione.
Una controparte al cinema hollywoodiano
Il cinema di Malick è una delle controparti americane – assieme a quelle di Cronenberg e di Lynch – una possibile ed efficace alternativa ad un certo cinema hollywoodiano, fatto di spettacolarità vuota, di sentimentalismo indotto, di false estetiche artificiose e fondato sulla parzialità stucchevole del rispetto ipocrita dei canoni dell’etica borghese. In questo senso, se la regia minimale fondata esclusivamente sulle capacità espressive dell’utilizzo della cinepresa e delle tecniche cinematografiche in connubio con il dichiarato intento fenomenologico di mostrare la realtà nella sua vera natura era la filosofia del progetto di Dogma 95 e la ratio cinematografica di Martin Scorsese a partire da Mean Street, Malick si inscrive in questo tipo di cinema.
Abbracciando in pieno nella modalità e nello scopo questo modo di fare cinema, Malick lo arricchisce di profondità spirituale e di potenza estetica e teorica, che aprono a un genere cinematografico peculiare: il cinema filosofico.
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