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The Boogeyman

The Boogeyman, meglio nutrirlo di immaginazione

Un film di buone intuizioni ma che risulta troppo didascalico e scialbo

10 minuti di lettura

Che dell’inafferrabilità inquieta di Stephen King rimarranno solo tracce e contesti lo si capisce da quando Lester Billings entra in scena, domato da un dolore orrorifico che ne prosciuga fin da subito la complessità psicotica. A guardarsi indietro, ci avevano avvisati: questo The Boogeyman barcollerà sul crinale del didascalismo.

Tratto da “Il baubau”, breve racconto contenuto nella prima antologia del re del terrore (A volte ritornano), The Boogeyman è il nuovo lavoro di Rob Savage, disponibile in sala dal 1 giugno. L’operazione è quella classica di espansione della materia di partenza, cui il regista attinge per poi disfarsene quasi subito, inseguendo una diversa ispirazione narrativa. E allora di King non rimane che l’archetipo suggestivo delle paure catalizzate dall’uomo nero, quell’entità sempre più fisica e sempre meno psichica nascosta, neanche troppo bene, nei ripostigli più bui delle nostre menti traumatizzate. 

Semplificare le complessità

The Boogeyman

Se il topos è quello delle paure più ataviche, il boogeyman di Rob Savage è declinazione incarnata di un mostro mentale che piega verso il reale: il trauma. Sadie (Sophie Thatcher), Sawyer (Vivien Lyra Blair) e il loro papà, Will Harper (Chris Messina), compongono quel che resta di un quadro familiare smembrato dalla recente e improvvisa morte della madre.

Nella loro casa svicoliamo con l’intrusione tipica del genere, sbirciando senza preavviso la difficile compensazione di un padre che non sa più come essere genitore e di due figlie zoppicanti sulla strada che aspira alla ricostituzione di una nuova vita. Raggelato da uno shock emotivo non maneggiato, Will si muove scostante tra il suo lavoro di psicologo e l’incapacità empatica di accogliere, e accompagnare, il dolore della propria famiglia.

Quando nel suo studio arriva Lester Billings, la storia è pronta a partire. Dell’uomo di King persiste un opaco ricordo, brevemente suggerito dalla caratura d’inquietudine di David Dastmalchian, che sullo schermo non dura molto, ma nella mente rimane impresso. Via l’ambiguità, la psicosi e la complessità misantropa, fanatica e violenta del protagonista del racconto letterario: quello di Rob Savage è un Lester sofferente, impaurito, intagliato da un dolore mai superato. I suoi tre figli sono stati uccisi da un’entità malvagia, inafferrabile, forse immaginifica, probabilmente reale, quel “qualcosa che viene a prendere i tuoi figli quando volti lo sguardo”.

Eccola qui, la ricetta del film. Le sue aspirazioni sono svelate immediatamente, esibite dalla volontà di scaricare il nucleo narrativo da qualsiasi interferenza d’indefinitezza e dalla necessità di materializzare, in forma, le alienazioni del pensiero. Di qui in avanti The Boogeyman prolifererà di manifestazioni didascaliche delle sue intenzioni, prendendoci per mano nella delucidazione di dove verremo condotti.

Battuta dopo battuta, netta e incontrovertibile, i suoi personaggi daranno voce ad ogni step del percorso interpretativo, sopprimendo l’intenzionalità dello spettatore in una semplificazione ipertrofica della sua reale capacità di sorpresa, spavento o introspezione. Dell’horror resta qualche jumpscare, una buona fattura tecnica, l’oscurità e una discreta tensione, ma dimenticatevi la suggestione.

The Boogeyman, la derivazione kinghiana

The Boogeyman

Il pretesto narrativo di derivazione da Stephen King vuole che l’arrivo di Lester Billings nelle vite del nucleo Harper porti con sé la venuta di quel mostro che ne ha devastato la famiglia, insaziato da una natura violenta e nutrita dalle vulnerabilità di chi non elabora le proprie sofferenze.

A partire dalla professionalizzazione del suo protagonista, Will, veniamo incamminati sul sentiero, debolmente metaforico, su cui si combatte la battaglia contro l’annebbiamento del proprio dolore. Ogni personaggio è una tappa simbolica del processo di guarigione, formalmente incanalato nella scrittura della propria umanità.

La figlia più piccola, Sawyer, è la prima a percepire il senso di pericolo. Come da tradizione kinghiana, più si indietreggia d’età e più si è sensibili all’intuizione di quella linea di confine tra superficie rassicurante e profondità orrorifica. Se il male non vive alla luce ma si nutre delle viscere più buie delle singole interiorità, lei il mostro è capace di sentirlo, vederlo e sfidare, illuminandone le ombre e lottando per essere creduta. Il momento successivo del cammino terapeutico è incarnato da Sadie, che il trauma non lo accetta ma è disposta ad affrontarlo, a testa alta, con coraggio e, ovviamente, esplicitandocene le finalità.

A chiudere le fila il padre, incapace completamente di guardare, vivere o fronteggiare i propri tormenti. Tre anatomie di una ferita che passa per la negazione, la non accettazione e la fragilità dell’abbandono.

The Boogeyman corporizza le suggestioni

The Boogeyman

Il boogeyman indossa i panni dell’ordinarietà, del quotidiano, deformandone i connotati e estraniando i suoi protagonisti da un’effettiva appartenenza alla realtà: così come fanno i traumi, quando non li affrontiamo. Va da sé, tutto il viaggio è affidato alla ricostruzione del microcosmo, alla ritrovata capacità di legarsi l’uno all’altro per sconfiggere una volta per tutte la tenebra tentacolare che li attanaglia. La creatura gioca sul vedo-non vedo delle fasi iniziali, generando una nevrosi tensiva destinata ad assopirsi nelle gradualità di progressiva corporeizzazione del male, sempre più manifesto e depotenziato di simbolismi e sperimentazioni psicologiche.

The Boogeyman perde d’identità quando sceglie di vestirsi da caccia al mostro, abbellendosi di convenzione (e tanti cliché) e denudandosi di spinosità. Lo scontro con la bestia assume i connotati della fisicità, provando ma non riuscendo a trasferirsi con efficacia su una controparte figurativamente mentale. Da non fraintendere: lo slittamento dei piani è leggibile, ma la sua essenzialità fatica a smuovere quelle precarietà inconsce che celiamo negli abissi dell’interiorità e di cui l’horror, spesso, si fa ammaliatore silenzioso. Non riesce a far paura e neppure destabilizza quel poco che basta a sfondarne la superficie; rimane semplicemente lì, in penombra.

Dove c’è la paura, lì sta il compito

The Boogeyman

A margine dei crismi del genere – e ci sono tutti: il buio, la casa claustrofobica, i ripostigli, i seminterrati, la multidimensionalità sonora – ciò che stride di The Boogeyman è la sua modellizzazione della materia narrata. Se la volontà di servirsi del genere per sensibilizzare il male attraverso i temi dell’elaborazione del lutto e della coscienza del dolore sono pretesti non innovativi ma sempre prolifici, è nel processo generativo che si perde la partita. Pur con qualche buona intuizione, l’eccessiva aderenza pragmatica ne scarica ogni contrappunto emotivo, sacrificando troppo quel tipo di inquietudine delirante che si alimenta di persuasione e di immaginazione.

Che poi il gusto sia soggettivo, e che la semplicità non sia sempre da buttare via è pure una verità. Ma se un film come Babadook (Jennifer Kent) faceva il giro abbracciando senza timore le stratificazioni della sofferenza e della morte, decidendo di farsi casa delle proprie afflizioni, nutrendole e tenendole a bada con quell’accettazione che non contempla la cancellazione; The Boogeyman percorre la strada della rimozione, nella sua variante del lasciare andare, finendo per saccheggiare anche il suo sottotesto di qualsiasi complessità introspettiva.

Il film si fa guardare, tenuto a galla da delle buone interpretazioni, ma non scuote che di poco gli anfratti più oscuri degli animi spettatoriali. E se “dove c’è la paura, lì sta il compito”, quello di Savage non è superato, accoccolato su un semplicismo che si nasconde dietro porte lasciate ancora pericolosamente socchiuse.


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Laureata in Cinema e Comunicazione. Perennemente sedotta dalla necessità di espressione, comprensione e divulgazione di ogni forma comunicativa. Della realtà mi piace conoscere la mente, il modo in cui osserva e racconta le sue relazioni umane. Del cinema mi piace l’ascolto della sua sincerità, riflesso enfatico di tutte le menti che lo creano. Di entrambi coltivo l’empatia, la lente con cui vivere e crescere nelle sensibilità ed esperienze degli altri

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