Per entrare in The Dreamers di Bernardo Bertolucci basta una frase, pronunciata in apertura dalla voce narrante che saltella felice nel sole parigino. “Avevo vent’anni” dice Matthew (Michael Pitt), l’americano ingenuo arrivato in Francia per studiare la lingua in piena stagione ’68. Avere vent’anni e vivere quel tempo significa lottare per un mondo migliore, essere sognatori senza cadere in quella degenerazione nota alle cronache e che ha reso il periodo successivo alle contestazioni un buco nero lungo decenni.
Un film che ricordiamo oggi per celebrare quelli che sarebbero dovuti essere i 79 anni del suo autore, ma anche perché The Dreamers ci parla ancora; non solo di sesso e rivoluzione, ma anche di cinema e vita.
Perché vedere The Dreamers a vent’anni (e non solo)
Ma avere vent’anni e vedere The Dreamers è quella che potrebbe definirsi esperienza catartica, che si viva nel Duemila o nelle ultime decadi del secolo scorso. Perché in The Dreamers c’è tutto, il cinema, il sesso, l’erotismo sotteso, la voglia di ribellione, la sottile paura che precede un cambiamento che si vorrebbe vivere ma non si è in grado di affrontare. C’è il senso dell’ignoto, la voglia di trasgredire, il cambiamento che fa gola anche se ci blocca la paura.
Per chi non ha avuto la fortuna di vivere in presa diretta il Bertolucci di Ultimo tango a Parigi, la scoperta dei suoi film degli anni Novanta può essere limitante, ma non del tutto fuorviante. Contrariamente a quanto ritenuto da molti, pellicole come Io ballo da sola hanno in sé un ideale di cinema certo lontano dai tempi d’oro del regista parmigiano eppure mantengono quella sottile carica di non detto che ancora, a distanza di anni, è in grado di riaccendere la fiamma del ricordo di un cinema fatto di attese, sguardi e mood sospesi.
The Dreamers è davvero film di Bertolucci
Con The Dreamers ci si riappropria del Bernardo Bertolucci classico, anche se contestato dai cinéphiles pomposi che, nella maggior parte dei casi, non accettano lo scorrere del tempo e l’idea che un regista produce sì arte ma che, in quanto tale, è anche soggetto al mutamento.
Bernardo Bertolucci è un cineasta che ha avuto tutto e tutto ha dato, dai riconoscimenti critici al successo di pubblico, e che ora, nell’apparente semplicità di un film chiuso tra le mura di un appartamento borghese, riesce a restituire la sincerità di un rapporto schietto e ambiguo.
L’iniziazione sessuale di giovani figli della borghesia ribelli sulla carta, le emozioni e i dubbi per ciò che accade dentro e ciò che accade fuori, lasciano sullo sfondo la contestazione del ’68 che penetra attraverso il meta cinema (Jean-Pierre Leàud giovane e poi maturo che legge la protesta degli intellettuali contro il Governo reo di sollevare dall’incarico il direttore della Cinématheque Francaise Henri Langlois, con le immagini sapientemente montate al grido di “libertà non è un privilegio che si concede, ma che si prende”) e la spregiudicatezza sessuale.
La gente mi chiede se è un film sul ’68. E io rispondo: sì, si svolge nel ’68 e c’è molto dello spirito di quell’epoca, ma non è un film sulle barricate o sugli scontri nelle strade. È un film che affronta quell’esperienza in generale.
Bertolucci a Venezina 2003
E allora quell’ingenuità di approccio ai temi di fondo che tanto si contesta a questo film è la concessione necessaria che si può fare a un Bertolucci che mostra il rapporto d’amore per i suoi personaggi, dipinti come in un quadro, è vero, ma con la sincerità che pertiene ai ragazzi di vent’anni, siano essi arrabbiati, annoiati, armati di “libri, non armi”.
Un ménage à trois di sognatori
La Storia non è mai esposta a giudizi univoci o oggettivi, passa attraverso l’influenza su comportamenti e stati d’animo che vanno dal rapporto morboso tra Isabelle (Eva Green) e Théo (Louis Garrell), “gemelli siamesi nella mente” all’inadeguatezza dei genitori in quanto adulti rispetto al mondo altro dei figli.
Quando si parla di politica lo si fa perché c’è il Vietnam, a Berkeley hanno contestato, e a volte si rimprovera un impegno politico superficiale che spinge a parlare per slogan senza varcare la soglia della porta di casa.
Ma quello che aleggia nel sogno è l’idea chimerica del forever young, la paura di affrontare il fuori rifugiandosi nell’apparente invincibilità della gioventù che, nel modo migliore possibile, viene messa a nudo letteralmente nei suoi corpi scultorei e negli ideali indefiniti, nei dialoghi curati e nel finale in cui la realtà deve fare i conti con la storia.
Matthew è l’unico che prova a uscire dalla condizione di sognatore e alla fine lo farà, lasciando i due gemelli al loro destino di molotov in mano e cinema surrogato della vita.
Perché sebbene inserito perfettamente nel ménage à trois dell’appartamento di Isa e Théo, l’americano è da subito il punteruolo che spezza un movimento armonico, colui che s’illude di cambiare qualcosa prima di essere costretto a voltare le spalle a la Bande à part che ha corso nel Louvre permettendogli l’incontro con la rivoluzione tra le mura domestiche invece che per le strade.
La vita come opera d’arte, dal ’68 a oggi
Quel cinema che unisce i tre e riversa sullo schermo l’enorme dono d’amore di Bernardo Bertolucci per un’arte che lo ha visto eccellere è il mondo dei sognatori in cui trovare rifugio dalla concretezza della vita, è il pane d’illusioni quotidiane di una “massoneria di cinefili” che siede sempre in prima fila, per ricevere le immagini e renderle “finite, ormai usate” perché, come dice Matthew, “lo schermo era veramente uno schermo; schermava noi”.
Théo e Isabelle sembrano volere ricreare la loro vita come un’opera d’arte, nel gioco di rimandi cinematografici che è poi un gioco di specchi, dove al refrain asfissiante “Che film è?” rispondono con penitenze che a un occhio attento sembrano voler educare lo spettatore alla visione e a condividere l’esperienza amorosa – che poi è filmica – con un altro, quasi eletto a voyeur (casi emblematici, la masturbazione di Théo davanti al poster di Marlene Dietrich e la perdita della verginità di Isa con Matthew, mentre il fratello di lei cucina uova e ascolta i gemiti).
La colonna sonora di The Dreamers
Tra gli elementi a concorrere per la fama acquisita negli da The Dreamers, ricordiamo una colonna sonora che entra sotto pelle e arricchisce il film di Bertolucci di un sapore inaspettato. I brani sono quasi esclusivamente pop, con un solo pezzo originale che è invero una cover di Hey Joe rivisto dai The Twins of Evil.
A colpire però è l’esattezza con cui Édith Piaf affianca Bob Dylan, mescolando sonorità che riverberano sul corpo dei tre protagonisti. La chitarra di Jimi Hendrix e il rock unico dei The Doors, fino alla voce di Janis Joplin.
La colonna sonora di The Dreamers è furba, perfetta nel trovare il meglio dei decenni precedenti, è maliziosa, perché suonata sempre al momento giusto, senza che il dubbio si affacci mai al senso di una scena che la musica si affretta a commentare. Una perfezione che fa eco alle immagini di Bertolucci.
Le interpretazioni di The Dreamers e il ritorno alla Nouvelle Vague
Nelle stanze sature di specchi deformanti, capaci di inebriare lo spettatore che da solo (ma pur sempre condotto per mano dal fascino indiscreto di Green e Garrell) si fa guardone, i gemelli sanciscono una sorta di patto di sangue che vive di celluloide, includendo e al contempo escludendo colui che uscirà in silenzio dalla sontuosa scena di specchi, in cui ormai aleggia un soffio di morte che nemmeno la protesta studentesca potrà spazzar via.
Dal buco della serratura escono fuori i sogni e ma anche i demoni, le citazioni si sciolgono aprendo un ventaglio criptico di infinite interpretazioni; la Nouvelle Vague insegna che non c’è niente di più vero dell’estremamente finzionale ed ecco che allora, in un film che oltre ogni limite è orgia di immagini e omaggi, non esiste nulla di vero rispetto a ciò che vediamo se non, appunto, la visione stessa.
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