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«The Irishman», l’intima rimpatriata di Scorsese

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Se il cinema fosse uno Stato non esisterebbe disoccupazione. Proprio così, perché da che la settima arte è entrata nell’olimpo dell’intrattenimento noi spettatori siamo stati allietati con una sequela di curiosi lavori immaginari. Spesso capaci di ridefinire anche gli impieghi già esistenti. Per cui lo scrittore è stato “compositore di lettere d’auguri” (500 giorni assieme), o “autore di sentimenti” (Her); mentre un semplice aiutante è diventato un vero e proprio deus ex machina a contratto, come nel Mr.Wolf di tarantiniana memoria. Così ora scopriamo che l’imbianchino non imbianca casa. E a dircelo è la storia di un ringiovanito Robert De Niro (non c’è trucco non c’è inganno, ma un bel po’ di CGI sì) diretto per l’occasione da Martin Scorsese per il suo The Irishman.

«The Irishman», il gangster movie come scusa

Era dal 1994, da quel terzo capitolo della trilogia della mafia, Casinò, che Scorsese e De Niro non lavoravano assieme. E dunque non deve stupire che per tornare sul grande/piccolo schermo (a seconda che approfittiate delle rare proiezioni o vogliate aspettarlo su Netflix il 28 novembre) abbiano voluto organizzare un evento in grande stile. Con gli amici di un tempo (e un cinema) passato, tra cui Al Pacino e Joe Pesci, e una storia di quelle capaci di ridefinire la nostra visione del mondo. Per fare ciò si parte però da un semplice gioco linguistico, quasi una freddura: l’imbianchino. È l’irlandese Frank Sheeran (un digitalizzato De Niro) che più che con pennelli e colori lavora con pistole e nemici passeggeri di un’intricatissima malavita anni ’50. Sempre due, le pistole. «Devi sempre averne due», ci spiega con una dovizia che scade in una piacevole comicità se paragonata all’intricata sequela di eventi da cui lo spettatore è stordito. Perché sì, the Irishman è il tipico gangster movie di cui non è sempre facile tenere le fila. Potrete provarci, magari prendere appunti durante la visione, ma non ne verrete tanto a capo. E va bene così. Come affermato dallo stesso Martin Scorsese: «non è quello che importa, chi uccide chi, a un certo punto non si capisce; il punto del film è la solitudine, il tempo che scorre rendendo tutto insensato».

Il film prodotto da Netflix, troppo costoso per gli Studios hollywoodiani a causa della complessa tecnologia che ha permesso di ringiovanire di decadi Robert De Niro, è in realtà una riflessione su ciò che resta quando la CGI scompare; sul De Niro narratore che da una sedia a rotelle, guardando dritto in camera, accentua rughe e sbiascica parole sul passato. L’intero film, un gangster movie che guarda al noir francese quanto alla stessa filmografia di Scorsese, scorre infatti nelle sue tre ore e mezza con la velocità di una vita accelerata, a tal punto che affianca al volto dei suoi personaggi la data e le modalità della morte. Sono solo figure di passaggio. E tanto appassiona nei suoi momenti più alti, tanto sfiorisce e si fa intimo nel suo lasciarli andare. Primo tra questi momenti, che è giusto riconoscere come veri e propri attimi di grande cinema, è l’apparizione di Al Pacino, nei panni del leader sindacalista James Hoffa. Lui, ancor più del (mal) ringiovanito De Niro, è il tamburo di questa storia. Furfante, carismatico, Al Pacino brilla sotto la regia di Scorsese.

Il tempo che passa, secondo Scorsese

Molta della perfezione che critici d’ogni dove hanno riscontrato in The Irishman non è però semplice conseguenza dell’incontro del cast perfetto con il regista giusto. Nella sceneggiatura di Steven Zaillian non mancano infatti dialoghi memorabili, divertenti quando associati al montaggio sempre più accelerato del secondo atto. Dopo un’introduzione sufficientemente usuale, e persino troppo stirata, e uno sviluppo intonato secondo una totale devozione al climax e all’intreccio di eventi, The Irishman inizia così a respirare, diventando quasi film a sé stante. Un cortometraggio sul dissiparsi della vita.

Scorsese spogliato di quella tecnologia che da The Wolf of Wall Street in poi sembra sporcargli l’immagine, lasciato solo con il suo attore feticcio. Aumentano qui i carrelli, i piani sequenza e la ricerca disperata dei volti. La regia si complica e semplifica in un solo momento, seguendo l’arrivo di una tematica quasi religiosa. È Scorsese che riflette il tempo. Rinuncia all’esaltazione del ricordo, quasi prende in giro le immagini (e dunque il cinema) del passato. Nessuno ricorda ciò che è stato. È la nostalgia secondo Martin Scorsese, e sembra far rima con solitudine.

Per molto tempo lui e De Niro avevano provato a mettere in scena il racconto scritto da Charlse Brandt, e nonostante sostengano che sia stata la tecnologia ad avergli dato il via («non avrei mai sostituito De Niro con un attore più giovane»), sembra sia stato il peso del tempo, e i pensieri dell’età, ad aver permesso la creazione di quello che è uno dei suoi film più intimi. Abilissimo nell’intrattenere, nel lasciarsi seguire, vivere, e andare. Tra un’incertezza sugli eventi e un disinteresse per gli stessi. Perché niente è come appare, tutto è ricordo, e anche un imbianchino può non essere ciò che pensiamo.

Non c’è differenza tra sala e schermo, purché i film esistano. L’ha detto Scorsese. Ed ha ragione. Ma se potete andate in sala. Lì il volto di De Niro, quello truccato per essere ancor più vecchio, e non quello digitalizzato per sembrar più giovane, è un racconto a parte. Da leggere come la pagina di un libro che Scorsese dedica all’inconsistenza della vita, e, ovviamente, da ammirare quanto più grande possibile.

Studente di Media e Giornalismo presso La Sapienza. Innamorato del Cinema, di Bologna (ma sto provando a dare il cuore anche a Roma)e di qualunque cosa ben narrata. Infiammato da passioni passeggere e idee irrealizzabili. Mai passatista, ma sempre malinconico al pensiero di Venezia75. Perché il primo Festival non si scorda mai.