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«The Post», il giornalismo perduto secondo Spielberg

6 minuti di lettura

Uno spettatore entrato in sala nel 2017 cercava quasi sicuramente in The Post il brivido precedentemente provato nell’allora recente Il caso Spotlight. Il ritmo, la velocità, il sentimento di un giornalismo passionale condotto da figure più simili a Detective che a reporter. The Post è però molto diverso da tutto questo. Più vero, direbbero per contrario alcuni. Ma non è del realismo che si appropria il racconto diretto da Steven Spielberg. Anzi, proprio come Il caso Spotlight condivide con la dimensione del reale solo il rapporto tra fatti storici e narrazione. Nel modo però con cui questa è condotta nemmeno Spielberg rinuncia all’eccesso, seppur in modo inverso. Lì dove si potrebbe accelerare, fare della storia un agile Romanzo, Spielberg in The Post si sofferma, rende eccessivamente veritiera la realtà, rallentando il racconto per trasmetterne l’importanza.

The Post Spielberg

Insomma, Spielberg non semplifica. Dilata, allunga, vivifica. Come fa un lettore talmente appassionato da rileggere la propria pagina preferita sottolineando con attenzione ogni singola parola. The Post è per questo un lettera d’amore vera e sentita, dedicata a un giornalismo (forse) perduto.

Giornalismo come scelta

Interno notte. L’orologio corre avvicinandosi al momento oltre cui ogni scelta dovrà essere presa. Tom Hanks si arrampica su e giù per la stanza, mentre Meryl Streep riscatta il proprio personaggio dall’altro lato della cornetta. Spielberg inizia così a solidificare l’atmosfera, immergendo il film in un’ansia attraverso cui gli attori sforzano la gola per rilanciare con ancor più foga la domanda fondante di questo momento madido di tensione: «Pubblicare o non pubblicare?»

In pochi caratteri è questo The Postun lungo momento di tensione statica e cerebrale, girato attorno ad una domanda la cui risposta trasformò un piccolo giornale, il Washington Post, nel simbolo della libertà di stampa.

La ragione dello scacco giornalistico, oltre cui si scopriranno le basi morali di un giornalismo quasi iperuranio, è un’ingiunzione della corte suprema che, nel 1971, impedì ai giornali di pubblicare le 7000 pagine top secret rubate al pentagono, le cosiddette Pentagon papers. Il documento dimostrava infatti l’inutilità della guerra in Vietnam, e la consapevolezza del governo Statunitense della sicura sconfitta. Un documento che ognuno di noi non avrebbe dubitato a pubblicare, se non poi scoprire la differenza tra la volontà parlata e una realtà fatta di conseguenze.

«To make this decision, to risk her fortune and the company that’s been her entire life, well I think that’s brave.»

La storia come viaggio nel presente

Un’intera nottata trascorsa a porsi la domanda decisiva, ad attendere, a chiedersi il perché delle proprie azioni e il peso delle loro conseguenze. Una lezione di giornalismo semplice e lineare, che appare però anacronistica se comparata con la forma acquisita dal giornalismo moderno. E allora improvvisamente si comprende che questo racconto non vuole essere un  mausoleo patriottico con lo sguardo rivolto al passato, bensì un viaggio nel tempo che giunge qui, sino a noi, per mostrare cosa varrebbe la pena di essere ritrovato. Persino con una difficoltà ed un dolore che dal racconto raggiunge la visione.

Elogio alla lentezza

The Post Spielberg

La pellicola potrebbe infatti apparire lenta e discorsiva. Ed è questa la sua perfezione. Perché mostrarci quanto strano e lento ci possa apparire un gruppo di giornalisti svegli una notte intera per decidere se pubblicare o no un articolo significa palesare il sintomo della nostra più grave malattia contemporanea: il bisogno di velocità.

Perché The Post non è una storia Instagram da 15 secondi, e nemmeno un tweet da 140 caratteri, è un racconto sul giornalismo. E il giornalismo è sì, una corsa frenetica alla ricerca di informazioni, ma anche una camminata lentissima sino al raggiungimento di una scelta, di un dolore preso con i piedi sulla scrivania, il fiato alla cornetta e il cuore diviso tra giustizia e individualità.

«Pubblicare o non Pubblicare?»

The Post Spielberg

Perciò, perché mai dovrebbe essere un problema? Sembra chiederci la nostra mente mentre osserva Tom Hanks correre su e giù dal soggiorno. Non lo capiamo, ci è lontana questa realtà che più si fa indistinta più ci lascia sprofondare di metro in metro nella crisi delle fonti e nel regno delle fakenews.

The Post è lento e discorsivo quanto lo siamo tutti noi in quei momenti in cui una scelta può cambiare ogni cosa, è lento e discorsivo quanto dovrebbe essere un giornalismo che Spielberg semplifica e resuscita, per noi, in due sole ore.


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Studente di Media e Giornalismo presso La Sapienza. Innamorato del Cinema, di Bologna (ma sto provando a dare il cuore anche a Roma)e di qualunque cosa ben narrata. Infiammato da passioni passeggere e idee irrealizzabili. Mai passatista, ma sempre malinconico al pensiero di Venezia75. Perché il primo Festival non si scorda mai.

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