Narrare per mezzo del cinema è sempre un’operazione complessa. La materia della narrazione, però, può rendere tale complessità più o meno ostica. Nel caso di The Report, il problema della mediazione audiovisiva si sarà certamente presentato come osticamente complesso al suo regista, sceneggiatore e produttore Scott Z. Burns. Come raccontare per suoni e immagini un lavoro di ricerca e analisi svolto su oltre sei milioni e trecentomila pagine di documenti, dettaglianti il programma di detenzione e interrogatori attuato dalla CIA durante la cosiddetta War on Terror post-9/11?
The Report, presentato in anteprima al Sundance Film Festival del 2019 e distribuito in esclusiva da Amazon, sviluppa il suo arco narrativo lungo una linea temporale di oltre dieci anni, testimoniando il tortuoso processo di stesura e pubblicazione del Committee Study of the Central Intelligence Agency’s Detention and Interrogation Program: un rapporto di oltre 6700 pagine sull’uso della tortura durante gli interrogatori svolti dalla CIA sui detenuti in sua custodia, all’indomani degli attacchi terroristici dell’11 Settembre 2001. Protagonista del racconto è Daniel J. Jones (Adam Driver), membro dello staff del Senato statunitense, incaricato dalla senatrice della California Dianne Feinstein (Annette Bening) di guidare un’esigua squadra nel lavoro di investigazione e stesura del rapporto. Siamo nel 2009 e il lavoro di ricerca e preparazione del documento viene stimato della durata di un anno: ne durerà tre e la sua pubblicazione avverrà solo nel 2014, in una versione, parzialmente censurata, ridotta a 525 pagine di sommario e conclusioni. Il report, nella sua versione integrale e non censurata, è tuttora classificato.
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Ambiguità temporale e accavallamento sonoro
La materia di The report è senz’altro complessa. Entro tale complessità, Scott Z. Burns opta per una scelta interessante: informare il proprio racconto di una temporalità ambigua. È all’esordio del film che lo spettatore viene subito confrontato con il tratto stilistico protagonista di tale ambiguità: l’utilizzo della voce in accavallamento sonoro.
Mentre le prime immagini tracciano i confini, ancora confusi, di un luogo e di un personaggio che diverranno presto familiari, due voci fuori campo, in dialogo, iniziano a risuonare. Dovrà trascorrere una ventina di secondi prima che a queste voci vengano associati – univocamente, audiovisivamente – dei corpi. È così, dunque, che ci vengono presentati il nostro protagonista – Daniel Jones – e un suo legale. Una presentazione particolare, nella quale l’immagine è anticipata dal suono. Ma, anche, una voce particolare, che fin da subito si propaga con libertà sul tempo della narrazione.
Mentre ascoltiamo lo svolgersi della conversazione, un montaggio alternato mostra frammenti di tale conversazione intersecarsi con immagini di Jones indaffarato nell’edificio della CIA in cui svolge le sue ricerche. Non ci è ancora dato saperlo, ma i due momenti sono distanti nel tempo. Inoltre, entrambi ritorneranno, verso la fine del film, carichi di nuove sfumature. La sequenza, quasi rendendosi conto della propria ambiguità, termina con la voce di Jones che ci/si dice «I think I should start at the beginning (penso di dover cominciare dall’inizio)».
Lo spettatore si accorgerà, però, che tale desiderio di linearità temporale non verrà (non potrà essere?) rispettato.
Narrazione per ellissi
Dopo la sequenza d’esordio, la cui collocazione nel tempo non viene, per il momento, specificata, The Report posiziona finalmente i suoi spettatori in luogo e tempo precisi: Washington, D.C., 2003. Daniel Jones è appena arrivato nella capitale, scatta una foto allo United States Capitol, sostiene un colloquio di lavoro per diventare un membro dello staff del Senato ma viene liquidato con un «go get some real-world experience (vai a conoscere il mondo reale!)».
Prima ampia ellissi temporale: è il 2007, Jones lavora per la senatrice Feinstein, la quale lo incarica di guidare un’investigazione sulla distruzione, da parte della CIA, delle registrazioni degli interrogatori svolti con alcuni prigionieri appartenenti ad Al Qaida.
Seconda ellissi temporale: sono trascorsi due anni, Jones ha ultimato la sua indagine, portando allo scoperto fatti gravi, che richiedono una seconda, più ampia investigazione. L’attuazione di quest’ultima viene approvata dall’Intelligence Committee (l’organismo preposto alla sovrintendenza dei lavori di intelligence statunitensi) e Jones viene posto a capo della squadra investigativa.
Terza ellissi temporale: la cronologia lineare proposta fino a questo momento subisce una prima battuta di arresto mentre l’intreccio del film risale all’11 Settembre 2001.
Sono trascorsi poco più di undici minuti e The Report ha strutturato una dimensione temporale costruita per ellissi, avanti e indietro nel tempo, lungo un arco di otto anni. Ogni ellisse è sostenuta da accavallamenti sonori più o meno consistenti: una voce risuona come fuori campo, sovrimposta alla rappresentazione visiva di una porzione di tempo, per poi rivelarsi come in campo all’interno delle immagini successive, all’interno, cioè, della successiva porzione di tempo. L’intero film è caratterizzato da tale temporalità non-lineare.
Storia e mediazione audiovisiva
Posto di fronte ad una materia così resistente alla rappresentazione audiovisiva (o, almeno, a un certo tipo di rappresentazione audiovisiva), The Report, al di là dell’adozione di alcuni espedienti più tipici (l’incessante, lieve martellare delle dita sulla tastiera dei computer; il rapido montaggio di dettagli su parole e brevi frasi tratte da documenti; le pareti ossessivamente riempite di immagini e annotazioni da protagonisti sempre meno riposati), al di là dell’assoluta predominanza rivestita dal dialogo verbale, sembra voler porre e voler porsi una domanda piuttosto urgente: quali strumenti ha il cinema per confrontarsi con i tempi e i luoghi della Storia? Come mediare audiovisivamente una ricerca – la ricerca degli eventi – che non può fare altro se non muoversi, costantemente, avanti e indietro nel tempo?
A circa mezz’ora dalla fine di The Report, Feinstein confronta Denis McDonough (Jon Hamm) – deputy national security advisor del primo mandato dell’amministrazione Obama – con una domanda e un’ipotesi di risposta: «Ti sei mai chiesto perché la Storia ripete se stessa? Credo perché non ascoltiamo mai la prima volta». Tali parole, in dialogo con l’illusoria promessa del “start at the beginning” dell’inizio del film, sembrano prestarsi efficacemente a descrivere gli intenti di quest’opera seconda (in veste di regista) di Scott Z. Burns: la Storia non può che essere ricostruita nella sua complessità temporale, che spesso sfida una concezione lineare del tempo, imponendo una rappresentazione ellittica delle vicende narrate e, talvolta, una o più ripetizioni. Nel caso non si fosse prestata adeguata attenzione la prima volta.
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