Cosa succede quando il destino di una famiglia intreccia quello di un’ancestrale, esoterica e misteriosa isola? Ce lo racconta The Third Day, la miniserie in sei episodi – più uno speciale di 12 ore – che dal 19 ottobre conquista un posto sulle piattaforme Sky Atlantic e NOW TV. E si presenta con il botto, con Jude Law (fresco di The New Pope) nel ruolo di protagonista, Brad Pitt come produttore esecutivo e Felix Barrett e Dennis Kelly (Utopia) al banco degli sceneggiatori.
Ciò che permea totalmente la serie è la sua natura immersiva, che proietta lo spettatore in una realtà surreale, distorta, psichedelica, ma così fortemente reale. Perché i protagonisti sono persone comuni che, pur nella loro stranezza quasi magica, abbracciano il dolore umano. E mentre li guardiamo in quell’atmosfera straniante, pensiamo a diverse references filmiche e seriali. Da The Beach, a Shutter Island, fino a Midsommar e Twin Peaks. Ma scopriamo cosa nasconde l’isola di Osea.
Un’isola criptica e misteriosa
Tutto ciò che vediamo sullo schermo avviene a Osea Island. Un luogo mistico e visionario, ma reale, dove tutto è «sale e suolo, mare e terra». Si colloca all’estuario del fiume Blackwater, nella regione inglese dell’Essex, ed è collegata alla terraferma da una strada di epoca romana. Questa è visibile e attraversabile solamente in alcune fasce orarie, quando la marea è bassa e le permette di emergere dalle profondità acquatiche.
In pochi arrivano a Osea, che incatena i suoi ospiti in una realtà limbica e sospesa nel tempo. I cellulari non prendono, gli dei celtici respirano la stessa aria degli uomini e la ritualità del sangue chiede pegno. L’isola è nata come covo redentore di alcolizzati e drogati, è stata scenario di carneficine rituali e sede di una base militare, oltre che centro di disintossicazione temporaneo. Non si può prescindere quindi dal sottofondo storico e religioso, che si piega a una distorsione allucinogena. Ma non è tutto qui.
«The Third Day», una storia di famiglia
L’isola reagisce inevitabilmente all’incontro con la natura umana. Così quella magia sotterranea che l’attraversa non può che influire sulle vite dei suoi ospiti e abitanti. Ed è quello che accade a Sam (Jude Law), un padre di famiglia che, in occasione dell’anniversario della morte del figlio Nathan, incappa in una misteriosa adolescente che lo conduce su Osea. Qui gli è velatamente impedito di fuggire, finché un’antica discendenza non gli conferma di essere l’unico erede designato per governare l’isola. Così si chiudono i primi tre episodi: Estate: Nel nome del Padre.
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Nove mesi dopo arriva sull’isola Helen (Naomie Harris), la moglie di Sam con le figlie Ellie e Tallulah. Il marito è scomparso quasi un anno prima con 40.000 dollari, lasciando la moglie con debiti sulla casa e sul suo vivaio, oltre che con le carte di divorzio non ancora firmate. Nessuno però vuole che Helen scopra il segreto dell’isola e quando Jess (Katherine Waterson) partorisce la figlia di Sam, frutto di un’unica notte di passione, il destino dell’isola vacilla. Chi la guiderà e chi ne resterà sopraffatto in una guerra tra due fronti? Questa è la chiusura degli ultimi tre episodi: Inverno: Nel nome della Madre.
La psichedelia del dolore umano
Può sembrare tutto un po’ confuso, ma l’intrinseco misticismo dell’isola è in realtà solo uno sfondo. Quello che appartiene alle 12 ore di esperienza immersiva live Facebook che costituiscono la parte centrale della serie: Autunno. Lì la ritualità arcaica è il tema portante di una narrazione che si racconta da sola. Quella più profonda e simbolica, che appartiene solo all’isola e per questo viene mostrata parzialmente e in maniera frammentaria. Così, lungo la serie vediamo grilli premonitori di morte, conigli dilaniati da primitivi rituali, teste di caprone e immagini votive.
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E poi quel trip allucinogeno alla Easy Rider che porta Sam a disconoscere la sua identità verso una nuova completezza artefatta. Perché l’isola deforma i pensieri e i ricordi, ma in questo è aiutata dal dolore che ogni personaggio porta con sé. Ognuno ha un proprio demone, dalla perdita di un figlio, alla sensazione di prigionia, all’incapacità di donare amore. L’isola gela il dolore in una condizione limbica e ancestrale, dove la complessità si riduce alla semplicità primitiva. Poco meno di 100 abitanti, che devono trovare una guida e ridonare equilibrio all’universo, convinti che Osea, come era per i Celti, sia ancora il «cuore del mondo».
Cosa non dice «The Third Day»
La distorsione allucinogena narrativa è in realtà quindi una centralizzazione emotiva. Sono i sentimenti umani che si raccontano, in una dimensione surreale che li abbandona liberi senza inibizioni. Proprio per questa sua natura ipnotica e volutamente lacunosa, The Third Day lascia il suo spettatore con diversi interrogativi irrisolti. Dalla simbologia disseminata su Osea, in cui non si addentra, al tempo irrisolto tra la prima e la seconda parte, fino alla dietrologia dei personaggi dell’isola. Nessuno di loro viene raccontato veramente, ma sono così intriganti da volerne sapere di più.
Così la serie ci sfama, ma non ci sazia. Perché le emozioni umane emergono con forza. Confondono, rattristano, sorprendono, impauriscono. Ma l’involucro che le contiene rimane nebuloso, forse troppo per renderci a pieno fidelizzati con i personaggi. Lo stesso Sam è fortemente ambiguo e alla fine della serie ne emerge un ritratto volutamente confusionario. The Third Day è dunque come risvegliarsi da un sogno e chiedersi quando si potrà ritornare. Una porta di accesso invitante verso un mondo che non riusciamo a spiegarci totalmente, ma che ci affascina. Questo è il lascito dell’isola di Osea, che ci parla con trasparenza nascondendoci tutto.
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