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tiger stripes portrait by stephanie cornfield amanda nell eu
Credit: Stephanie Cornfield

Tiger Stripes, un messaggio di libertà dalla Malesia

6 minuti di lettura

Adolescenza: specchio dell’anima, anticamera dei freni inibitori. È proprio questa fase della vita che cattura l’interesse di Amanda Nell Eu, regista malesiana, classe 1985, qui al suo primo lungometraggio, che abbiamo recuperato in occasione dell’AFI Festival di Los Angeles. Tiger Stripes (già vincitore del Grand Prix della Settimana internazionale della critica al Festival di Cannes 2023) mostra le bestie fameliche annidate dietro a una ragazzina in fase puberale come Zaffan (Zafreen Zairizal); frastagliate e anchilosate in una netta separazione antropomorfa: da una parte mostro orripilante, la selvaggia esplosione proveniente da una repressa società anch’essa irrigidita in falsi schemi, dall’altra invece la semplice, anche se burbera e ribelle, anarchica Zaffan.

Stephanie Cornfield's portrait Tiger Stripes Amanda Nell Eu
Credit: Stephanie Cornfield
Amanda Nell Eu nella lente della fotografa professionista Stephanie Cornfield, in occasione dell’AFI Festival di Los Angeles

Chi è Zaffan, la dodicenne che distrusse la società

12enne schietta, popular, Zaffan è la protagonista di un dramma sociale che va oltre il tempo e lo spazio. Zaffan è infatti una (se non La) studentessa in una piccola comunità rurale della Malesia. Con le sue amiche compone un branco, unito dai balletti su TikTok e rivalità taciute. Ma è arrivato il momento di crescere, e quando Zaffan si accorge che qualcosa sta cambiando in lei, quel caldo abbraccio infantile e innocente in cui è immersa dalla nascita inizia a somigliare di più a un limbo dantesco in cui è facile perdersi.

Dal canto loro gli adulti (guarda caso) non capiscono, e in Zaffan vedono una minaccia per l’intera società: infatti, quando la ragazzina inizia a mostrare segnali di vero e proprio cambiamento (con macchie sulla pelle e spiriti maligni che la tormentano), nella rigorosa scuola “militare” che frequenta scatta un’isteria collettiva tra le altre studentesse; in tutta risposta gli insegnanti decidono di chiamare un medico simil-esorcista. Il demonio ha invaso la piccola realtà di Zaffan, la natura va repressa.

Tiger Stripes, graffiare e spaesare (in tutti i sensi)

Non sorprende se si rimane attoniti, spaesati, alla visione di un film come Tiger Stripes. Non tanto perché è la dimostrazione di un cinema lucido e veramente attento alle condizioni dei giovani di oggi, piuttosto perché la meccanica della struttura narrativa graffia nel vivo del perbenismo che circonda Zaffan e tutte le sue compagne.

In un certo senso ci si sente coinvolti, ma non troppo: in Tiger Stripes l’empatia è una chiave fondamentale che a volte, tuttavia, fatica a trovare il punto di contatto con lo spettatore. Siamo attoniti, appunto, talvolta spaesati. Un po’ come se l’opera prima di Amanda Nell Eu volesse sfuggire da quel mondo che tanto è criticato, strappato via a morsi e graffi, con odio sincero. È la viscerale immersione in una donna, al fine di estraniare il suo corpo dalla realtà, staccarlo da un contesto fittizio, e gettarlo lontano dalla società ultraconservatrice e ultraopprimente che cerca di imprigionarla.

L’importanza di gridare il proprio dissenso

Una regia ancora titubante accompagna con disimpegno estremo Zaffan nel suo turbinio di follie adolescenziali. Tiger Stripes mostra un coming-of-age distruttivo e deturpato, che al contrario, non dipinge un protagonista in lotta per entrare nel mondo degli adulti, nel cuore della società, bensì per abbandonarlo.

Quando conosciamo Zaffan, la troviamo inserita in un costrutto culturale d’élite, asseconda la sua fanciullezza, marchia il territorio ovunque appiccicando stickers anonimi dall’animo tenero. È il ritratto di un futuro vuoto e glitterato (come ha dimostrato Barbie, tutto ciò che ha un brand perde di senso). È con tutti questi escamotage che Tiger Stripes vuole imprimere le proprie unghie nel dibattito collettivo.

Ma nonostante il mondo parli a Zaffan, come Zaffan cerca di parlare al mondo, la comunicazione è interrotta proprio perché bloccata da una società che non sopporta vederla libera. Perché alla fine, il film vincitore alla Settimana della Critica di Cannes, intende esaltare la libertà con cui si ritrova a “vivere” l’essere umano. Ci invita ad alzare sempre la testa e continuare a urlare, farsi prendere dall’ira e dal raptus del dissenso. Ne vale assolutamente la pena, da provare. Per quanto riguarda il film, invece, forse serve un attimo in più di sospensione dell’incredulità.


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Studente alla Statale di Milano ma cresciuto e formato a Lecco. Il suo luogo preferito è il Monte Resegone anche se non ci è mai andato. Ama i luoghi freddi e odia quelli caldi, ama però le persone calde e odia quelle fredde. Ripete almeno due volte al giorno "questo *inserire film* è la morte del cinema". Studia comunicazione ma in fondo sa che era meglio ingegneria.

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