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Tim Roth, l’attore culto di Quentin Tarantino

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17 minuti di lettura

Timothy Simon Smith (in arte Tim Roth, per riprendere il cognome ebraico-tedesco adottato dal padre dopo la Seconda guerra mondiale) avrebbe voluto fare lo scultore. È stato merito di Stoker se, intepretando per gioco la parte del Conte Dracula, Roth divenne un giovane attore di successo (“Brit Pack“) insieme ad altri talenti britannici come Gary Oldman, Colin Firth e Daniel Day-Lewis.

Noto per essere stato uno dei volti-feticcio del cinema tarantiniano, l’estetica performante dell’attore, l’aura di ambiguità, il suo carisma magnetico, l’abilità da trasformista, lo hanno reso uno degli interpreti più cangianti della sua generazione, capace di calarsi alla perfezione in plot noir e violenti incarnando il bene quanto il male.

Con più di settanta film all’attivo e numerose figurazioni nel panorama seriale (Twin Peaks, David Lynch, 2017), per il compleanno dell’attore ripercorriamo quattro momenti cinematografici che lo hanno visto plasmato dalle mani del più abile demiurgo di personaggi: Quentin Tarantino.

Every dog has his day: la consacrazione di Mr. Orange

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Tim Roth in una scena del film

Nel lungometraggio d’esordio di Quentin Tarantino, Le Iene (Reservoir Dogs, 1992), Tim Roth ha il doppio ruolo di Mr. Orange/Freddy Newandyke, un agente infiltrato nella banda di rapinatori di Cabot (tra cui figurano volti noti come Harvey Keitel, Michael Madsen, Steve Buscemi — attori feticci del cinema tarantiniano) che, in seguito ad un colpo sfortunato, si riuniscono nel luogo dell’incontro (un ex obitorio, in realtà) per ripercorrere i passaggi e scoprire la falla. Se non fosse bastato l’intuito di Mr. Pink, c’è un altro elemento a lanciare la soffiata risolutiva: nella scena in cui Eddie il bello (Chris Penn) è al telefono mentre guida, si vede passare un palloncino arancione, un occhiolino all’ambiguità del personaggio di Mr. Orange. 

Il film, presentato al Sundance Film Festival di Robert Redford, sorprese la critica per la cifra rivoluzionaria di Tarantino — accusato di plagio per la ripresa di alcune sequenze da City on Fire (Ringo Lam) — che con Le Iene attestava i dettami del proprio cinema fatto di carne e sangue, violenza fisica e verbale, trielli, ambiguità morale, cronologia distorta e un sapiente uso della macchina da presa. Per quanto, anche nell’esordio, la violenza sia traccia cardinale, a fare da protagonista è l’introspezione psicologica dei personaggi, studiati e ridotti ai minimi termini da ogni angolazione spazio-temporale. 

In questa famosa scena, Mr. Orange è appena stato colpito mortalmente allo stomaco durante la rapina fallita. Dal sedile posteriore, l’infiltrato stringe la mano insanguinata di Mr. White (Harvey Keitel), preludio all’epilogo in cui sono proprio i loro personaggi a sopravvivere dopo la rivelazione, poco prima della sparatoria finale.

La performance di Tim Roth è estremamente fisica, emotiva: rigido e misurato nell’incipit, svela progressivamente una straziante paura della morte. “Voglio tornare indietro, mi sto cagando sotto”, grida disperato contorcendosi senza sosta. Oltre la doppiezza del suo personaggio, nella sequenza d’apertura Roth trasferisce al suo Mr. Orange la necessità tipicamente umana di trovare un complice nella sfortuna, di aggrapparsi al nemico come unica risorsa prima della morte. Ignari portavoce di una fazione opposta, Mr. Orange e Mr. White bucano lo schermo con chimica chiasmatica e solidale fino all’estremo atto finale.

Pulp Fiction (1994): un fottuto uomo pieno di buonsenso

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Tim Roth in Pulp Fiction

Finanziato interamente dalla Miramax per il fascino che suscitò la brillante sceneggiatura, Pulp Fiction è forse il lungometraggio più universalmente identificativo di Tarantino. Scritto nel biennio 1992-93, il film presenta una trama cronologicamente frammentata e dinamica che concede allo spettatore l’occasione di assistere allo stesso evento da punti di vista differenti. 

La scena iniziale, A colazione – Parte 1,  dopo un breve insert autoreferenziale nella definizione dell’aggettivo pulp — n.1. A soft, moist, shapeless mass of matter — vede una coppia di rapinatori e amanti seduti all’Hawthorne Grill mentre architettano il colpo. Sono Ringo (“Zucchino”, Tim Roth) e Yolanda (“Coniglietta”, Amanda Plummer) ad aprire e chiudere Pulp Fiction, con la ripresa nell’epilogo della scena iniziale a cui si aggiungono i personaggi di Vincent Vega (John Travolta) e Jules Winnfield (Samuel L. Jackson). “Un fottuto uomo pieno di buonsenso”, si definisce Ringo mosso dall’ambizione di mettere in scena un colpo più sicuro in un ristorante. Prima dei titoli di testa, Ringo e Yolanda salgono sulle poltroncine del diner e con le pistole rivolte alla folla danno inizio a Pulp Fiction.

A colazione – Parte 2. Mentre Vincent è in bagno Jules si trova coinvolto nella rapina. Ringo gli si avvicina, incalzando un dialogo di potere contro la calma autarchica di Jules. “Se non apri quella valigetta ti spappolo la faccia”, dice Zucchino, Jules finge di assecondarlo per poi puntargli contro una pistola suscitando lo sgomento delirante della partner che, a sua volta, mira alla testa di Jules.

È il momento del sermone biblico di Samuel L. Jackson, quell’Ezechiele 25:17 esaltante per ogni cinefilo degno del titolo. La decostruzione emotiva del personaggio di Ringo – da invincibile superuomo a umano impotente – è scritta e plasmata da Tarantino proprio per Tim e Amanda, anche se nello script originale durante lo stallo Jules avrebbe dovuto sparare tre colpi a Ringo e due ad Amanda prima di realizzare che fosse tutto un sogno.

“Tu sei il debole, e io sono la tirannia degli uomini malvagi. Ma ci sto provando Ringo, ci sto provando con grande fatica a diventare il pastore”, confessa Jules a Ringo: la redenzione umiliata del rapinatore è tutta negli occhi espressivi di Tim Roth, nel dialogo silenzioso che intrattengono con quelli della controparte. È uno stallo del non-detto, un momento di incredibile scrittura che oggi, a distanza di quasi trent’anni, colpisce per la puntualità degli spazi, dei personaggi, dei tempi scenici.

Four Rooms: l’insostenibile pesantezza dell’essere Tarantino

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Tim Roth nei panni di Ted

Four Rooms (1995) è la scommessa di Quentin dopo il successo di Pulp Fiction (1994), un omaggio alla Nouvelle Vague scritto e diretto con Robert Rodriguez, Alexandre Rockwell e Allison Anders. Quattro registi per quattro episodi che ruotano attorno alla figura di Ted (Tim Roth), lo stravagante fattorino del vecchio albergo Mon Signor a Los Angeles, che durante la notte di capodanno si trova da solo a soddisfare le richieste di tutti i clienti.

L’episodio diretto da Tarantino, L’uomo di Hollywood, conclude le peripezie del fattorino, che deciso a licenziarsi accetta un’ultima commissione: trasportare nell’attico un carrello con ghiaccio, una matassa di spago, una ciambella, un sandwich, tre chiodi, una tavoletta di legno e un mannarino per ordine di una triade di destinatari (Quentin Tarantino, Bruce Willis, Paul Calderón) capeggiati da Chester Rush. 

La fisionomia caricaturale e strabordante del personaggio di Tim Roth sembra essere, almeno in parte, autobiografica, un’esigenza tarantiniana di rappresentare sullo schermo la pressione frustrante vissuta nel soddisfare i parametri imposti dalla critica. Pensato originariamente per Steve Buscemi, quando l’attore rifiutò il ruolo per analogia con un progetto precedente, il testimone passò a Roth, cui spettò il compito di riportare in scena il remake (1985) della serie tv Alfred Hitchcock presenta con John Huston e Kim Novak.

L’impostazione scenica di Tim Roth lo distanzia — per marcatura — dai ruoli precedentemente interpretati sotto la guida del regista, tuttavia questa caratterizzazione, a tratti intollerabile del personaggio, assume le vesti di un traino catartico necessario per introdurre lo spettatore al clima di follia imperante nell’albergo. Il Ted messo in scena dall’attore esplode di virtù mimica, tratteggiato nella forma quanto nel contenuto espressivo della sua mise en scène: tic nervosi, battute rapide, prossemica iperbolica, atteggiamento indisponente. Nell’ultimo episodio, in più di un’occasione il fattorino si costruisce in absentia, come secondo termine di paragone dei comprimari, emergendo progressivamente in un dialogo che fa del climax la sua meta costante. 

In questa scena Chester Rush (Quentin Tarantino) invita il fattorino ad assaggiare un goccio di Crystal pur essendo in servizio. Il carrello segue Chester mentre dal bancone si sposta verso Ted, secondo fuoco, che diventa — per il monologo di Chester — il regista dell’azione. Una volta terminato, la macchina torna su Ted, ma a monopolizzare l’attenzione è ancora il comprimario, che entra nell’inquadratura abbracciando il fattorino (passaggio del testimone) e sancendo l’ingresso dell’outsider nel gruppo precostituito. Nella sequenza successiva, Chester chiede al fattorino di elencare gli oggetti nel carrello: Ted li solleva, uno ad uno, in favore della macchina da presa, istruendo allusivamente lo spettatore circa l’evento che sta per compiersi. L’interpretazione di Tim Roth è disturbante, eccessiva, inverosimile, un protagonista straordinario che fallisce nell’impresa di rendersi ordinariamente stravagante.  

Nella scena che conclude l’esperimento del ’95, il fattorino diventa il giudice esecutore di una scommessa stretta tra Norman (Paul Calderón) e Chester: se Norman riuscirà ad accendere il suo fedele “zippo” (accendino) per dieci volte di seguito, riceverà in cambio la costosa automobile dell’amico. Al contrario, se fallirà, sarà compito del fattorino quello di recidergli il mignolo con una mannaia. La posta di mille dollari e la pressione del gruppo convincono Ted ad accettare l’incarico da boia. La camera stringe sull’accendino in primo piano, il dito di Norman scatta ma fallisce al primo tentativo, l’accetta cade sul mignolo mentre Ted fugge gongolando con la ricompensa, senza voltarsi indietro. Le voci del gruppo, fuori campo, si sovrastano in un siparietto comico scandito dai titoli di coda. 

“The little man” come emblema dell’ambiguità tarantiniana: la summa di The Hateful Eight

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Tim Roth in The Hateful Eight

Ne avevamo già parlato qui come di uno status gratiae, un’espressione riverente che Tim Roth aveva riservato all’amico e collega Quentin Tarantino nei contenuti extra del blu-ray di “The Hateful Eight”, l’ottavo film scritto e diretto dal regista. “È la stessa persona, ma ora possiede quel senso di autorevolezza cercato per molto tempo” afferma Il piccolo uomo, per riprendere l’identità del personaggio che l’attore interpreta nel film. Personaggi enigmatici, mendaci, volubili, figure in grado di fingersi altro senza sforzo alimentano questa rivisitazione western del capolavoro tarantiniano Le Iene, costretti dall’immobilità dello spazio scenico ad agire maieuticamente sulle dinamiche morali degli altri comprimari.

Per ogni film Tarantino scrive le sue circostanze e dà agli attori potere creativo, con il suo entusiasmo trasforma l’impossibile in potenzialmente possibile, calibra le capacità di ognuno e stimola gli attori ad arricchire i personaggi ingaggiando con loro una sfida a livello interpretativo e intellettuale.

Giulia Calvani, Quentin Tarantino: 3 film del Lavoisier postmoderno da 70mm (27 marzo 2021)

In The Hateful Eight Tim Roth interpreta Il piccolo uomo, un personaggio dai modi garbati e dalla dialettica ricercata, tipicamente inglese, che sostiene di essere il boia di Red Rock, incaricato dell’esecuzione di Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh). Se Tarantino è noto per non lasciare nulla al caso, sembra improprio affidare alla coincidenza questo omaggio all’ambiguità che sembra avverarsi nuovamente nel ruolo assegnato all’attore: la duplice identità all’esordio del sodalizio con il regista (Le Iene, 1992), dove l’attore interpretava il ruolo di Mr. Orange/Freddy Newandyke, si ripropone entusiasticamente nell’ultima collaborazione con Tarantino, nella quale il boia cala la maschera e rivela di essere Pete Hicox, uno dei membri della banda di Jody (Channing Tatum) venuti a liberare la sorella.

In questa sequenza, il boia Oswaldo Mobray si fa indebito portavoce di un’astrazione, chiarificando al personaggio di Daisy il compimento valoriale di quella che una civile società chiama giustizia. L’enigmaticità del personaggio allude, nella sua fisionomia bifronte, alla condizione di esistenza di una giustizia che sia degna: ad uccidere Daisy sarà l’assenza di passione di chi lascerà cadere la lama, vera essenza della giustizia. Perché se la giustizia fosse applicata con passione, correrebbe il pericolo di non potersi più dire tale.

Alla voce del boia Tarantino affida la chiave della sua poetica filmica e letteraria, quel lucido distacco emotivo che, con tocco algido e truculento – di penna quanto di macchina – è in grado di portare nuovamente sulla scena il repertorio pulp. Si consegna alla dialettica di un personaggio scritto con il cesello, nella forma quanto nel contenuto minuzioso delle sue considerazioni, un’identità cangiante sulla scena e fuori campo, ingannevole, sadica, incapace di tradirsi. Tim Roth: Il piccolo uomo per il grande cinema.


In copertina: Artwork by Alessandro Cavaggioni
© Riproduzione riservata

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25, Roma | Scrittrice, giornalista, cinefila. Social media manager per Cinesociety.it dal 2019, da settembre 2020 collaboro con Cinematographe per la stesura di articoli, recensioni, editoriali, interviste e junket internazionali.
Dottoressa Magistrale in Giornalismo, caposervizio nella sezione Revisioni per NPC Magazine, il mio anno ruota attorno a due eventi: la notte degli Oscar e il Festival di Venezia.

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