Tra tutte le storie natalizie e di buon cuore, quella di Tokyo Godfathers risulta essere la più cruda e sensibile raccontata sullo schermo. Una piccola fiaba urbana che riprende i grandi classici, come i film di Capra e In nome di Dio di John Ford, li immerge nello stile ed ambientazione giapponese per poi tirarne fuori un racconto di disperazione, redenzione e fortuna di tre reietti della società che compiono un viaggio in una città caotica e viva, tra le luci delle strade e le insegne dei suoi bar. La poesia del film si può racchiudere nell’adagio di un celebre cantautore italiano che ha sempre raccontato le storie degli ultimi.
Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior
Fabrizio De Andrè, Via del Campo
Tokyo Godfathers, disponibile su Prime Video, è l’anomala pellicola del 2004 diretta dal compianto e geniale Satoshi Kon, che in questo caso decide di staccarsi da un’atmosfera onirica e inquietante e di raccontare una storia più vivace di buoni sentimenti. Non rinuncia però a un ritratto esplicito e diretto dei tre personaggi e della città di Tokyo, sempre in movimento anche durante le festività, che racchiude sia anime gentili sia individui malati e abietti che non si fermano davanti a nulla per soddisfare le loro pulsioni e desideri.
La sceneggiatura di Keiko Nobumoto, autore di episodi di Cowboy Bebop e Samurai Champloo, è un adattamento del film di Ford, ma invece di prendere pari passo dal lungometraggio e dal libro, riadatta alcuni elementi della cultura occidentale declinandoli nel contesto degli anime giapponesi, dimostrando una spiccata originalità e il potente fattore della contaminazione con matrici culturali diverse, grande punto di forza dell’animazione giapponese. Riesce a combinare momenti di tensione, comicità e poesia in una vicenda che avrebbe toni tristi e melanconici ma è invece una tragicommedia dai toni scanzonati e ottimisti.
Hana, la poesia e il mondo queer giapponese
Tokyo Godfathers si apre nella notte di Natale, quando tre barboni, rovistando nella spazzatura, trovano una neonata. Hana, una drag queen che ha perso il lavoro, decide di prenderla con sé per soddisfare i suoi istinti materni e perché convinta che sia un dono del cielo che porterà fortuna alla sua “famiglia”. La ribattezza con il nome di Kiyoko che significa “pura” e la prende a suo carico finché, convinta a forza dai suoi compagni, non troverà la vera madre.
Tokyo Godfathers racchiude nel personaggio di Hana un amore incondizionato e una grande leggerezza d’animo che la rendono sia l’anima poetica e la vena comica del film: lei recita degli haiku, è molto credente, spera un giorno di poter accudire e generare un proprio figlio, ma spesso per il suo temperamento vivace e la sua ingenuità fa fatica a stare dietro alla bambina e ha scontri e incontri accesi con il partner Gin e i vari uomini sul suo passaggio. Nonostante la tempra, i suoi compagni la aiuteranno ad avere i piedi per terra e ad accudire la bambina che si rivelerà essere sia un talismano portafortuna, sia una calamita di pericoli e incidenti.
Seppur Hana possa sembrare la tipica tipica spalla comica degli anime, il suo personaggio in Tokyo Godfathers è anche un riferimento alla scena queer giapponese che si sviluppa nei bassifondi e nei distretti del piacere, spesso bistrattata e malvista dalla maggior parte della popolazione, alla stessa stregua dei barboni e dei fuggiaschi. La tridimensionalità sta nella sua rappresentazione di sognatrice che spera di essere accettata dalla società come persona e di riacquistare un posto nella sua comunità, che lotta per essere più protetta e rispettata.
Mayumi, la fragilità e la gioventù odierna
In Tokyo Godfathers non poteva mancare una giovane e fragile ragazza che potesse rappresentare gli umori e i problemi dei giovani giapponesi: la cultura manga in origine è proprio un veicolo della controcultura giovanile che, in fumetti, serie e film, insorge e lotta per i suoi diritti e libertà contro il tradizionalismo e la politica del proprio tempo.
Nei film di Kon, come Perfect Blue e Millenium Actress, anch’essi citati nella pellicola, la gioventù è letta in chiave intima e spesso i giovani sono vittime di una società globalizzata che li bombarda di stereotipi di bellezza e di salute irraggiungibili e impone loro di avere una carriera lavorativa di successo: tutto ciò incrina la propria immagine interiore e la salute mentale, già provata con il contatto con la dura realtà, lasciandoli sospesi o feriti in uno scontro tra ciò che è surreale e ciò che è vero.
Mayumi, in Tokyo Godfathers, non fa eccezione se non per pochi elementi. Lei è fuggita di casa dopo una violenta lite con il padre poliziotto a cui è seguita una colluttazione, episodio che la segna sia nel mondo dei sogni, sia in quello reale. Infatti è poco propensa ad accettare la bambina, ma gli incontri casuali e frenetici nel periodo delle festività le faranno cambiare idea e la riavvicineranno alla famiglia d’origine, nonostante lei decida di rimanere in quella “di strada”, adottiva.
Attraverso l’accudimento della bambina si troverà ad avere una responsabilità della vita umana che la porterà a crescere, ad accettarsi e a perdonare. Oppressa da un senso di rabbia e di colpa profondo, tipico della società giapponese, attraverso la sua avventura urbana tra gli accattoni di Tokyo, troverà un senso alla sua vita e un motivo per restare ad occuparsi dei suoi compagni d’avventura e della nuova vita a carico, rischiando persino la vita come negoziatrice con criminali e malati mentali.
Gin, il riscatto verso la famiglia e l’alcolismo
Gin è un ex padre di famiglia che millanta di essere stato in gioventù un ciclista famoso e di aver avuto una storia molto più tragica di quella ha alle spalle: le sue storie sono annacquate e sotterrate da litri di alcool che recupera dalla spazzatura, da altri barboni e dalle offerte funebri dei cimiteri. Gin è tutto quello che si trova nelle tende dei senzatetto ma che il Giappone si limita a nascondere, ad allontanare e persino eliminare per mancanza di decoro e cattiva pubblicità: la sua condizione è molto simile a quella di qualunque homeless nelle metropoli e città giapponesi.
Per vergogna e paura, non racconta mai la sua vita per intero ai suoi compagni e preferisce spesso bere e litigare con la giovane del gruppo, per allontanarla dal suo stile di vita e da quel mondo senza pietà e occhi per i diseredati e i cattivi debitori. Tiene sempre con sé un gruzzolo da mandare alla famiglia, una bottiglia e un risentimento verso se stesso e chi l’ha ridotto in quello stato. La neonata è l’occasione per riscattarsi e per rivelare chi è davvero: lui comincia a prendersi cura della bambina, a cercare indizi sulla vita passata e ad allontanarsi dal suo stile malsano di vita.
Il momento più assurdo e comico di Tokyo Godfathers è proprio il suo salvataggio dopo un pestaggio di una baby gang da parte di una fata natalizia. Quest’ultima, in realtà una collega del club dove lavorava Hana, rappresenta l’incontro tra l’angelo della tradizione cristiana e la maghetta anime, l’archetipo di eroina femminile delle Serie TV. Tale vena comica-surreale esplode proprio nel finale in cui gli edifici della città celebrano questi tre eroi moderni, cantando e ballando l’Inno della Gioia in lingua giapponese.
Riguardo l’animazione di Tokyo Godfathers, c’è una grande cura per le scene d’inseguimento, immancabili nei film di Kon, e i fondali di un ambiente urbano illuminato e variopinto che si sposa con il tono leggero e divertente della colonna sonora di Keiichi Suzuki. Tokyo Godfathers sembra alieno nella filmografia dell’autore nipponico perché manca dell’elemento psicoanalitico e della caratteristica inquietudine. Tuttavia, risalta proprio grazie all’originalità con cui viene trattato il genere “natalizio” e per il taglio crudo ed autentico di una vicenda al limite del reale e dell’assurdo di tre reietti della società che trovano la felicità e la fortuna grazie ad una bambina dai tratti di un deus-ex-machina.
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