Palma d’Oro a Cannes 2022. A Ruben Östlund ormai non manca più niente, soprattutto dopo che ha conquistato – per la seconda volta – il premio principale del più importante festival cinematografico al mondo. Cinque anni fa toccò al tanto discusso The Square (2017), oggi invece al maturato Triangle of Sadness, in sala dal 27 ottobre.
Maturato, cresciuto, valutato. Usate l’aggettivo che volete, ma per Triangle of Sadness sembra che il regista svedese abbia estrapolato i concetti di fondo, che in The Square facevano fatica a ingranare, e li abbia riportati con una luce propria: quella dell’oro, dello sfarzo e della borghesia incancrenita.
Triangle of Sadness: la trama
A una giovane coppia di modelli ricchissimi, Carl (Harris Dickinson) e Yaya (Charlbi Dean, venuta purtroppo a mancare questo agosto), viene offerta una vacanza su un super yacht con altrettanti facoltosi passeggeri. A bordo della nave anche una platea di figure satiriche: il capitano marxista depresso Thomas (Woody Harrelson), l’hotel director che segue ogni ordine nonostante la barca affondi Paula (Vicki Berlin), e una responsabile delle pulizie vietnamita – che entrerà soprattutto in scena nella terza parte – Abigail (Dolly De Leon). Tutto va (più o meno) a gonfie vele finché la nave viene attaccata da un gruppo di pirati, provocando il naufragio di alcuni degli ospiti e dell’equipaggio.
A Östlund, come si può vedere, piace mettere a disagio i propri protagonisti: il cringe è sempre stata la sua arma narrativa più affilata e la satira sociale ne è una diretta conseguenza. Ma ormai lo conosciamo bene, ed è per questo che, nonostante alti e bassi, ogni volta che esce un film di Östlund non vediamo l’ora di correre al cinema.
Anche perché Triangle of Sadness, da questo punto di vista, sembra un sequel di The Square e un ulteriore gradino verso la maturazione artistica per lo stesso regista. A differenza del primo periodo – Involuntary (2008), Play (2011) – con Forza Maggiore (2014) l’autore inaugura un filone tutto nuovo. Abbandonando il cinema neorealista di matrice scandinava, si butta nella satira più efferata, senza esclusioni di colpi e battute. Anche se c’è da dire che di satira si è sempre trattato: Involuntary nei suoi eccessi non può che far ridere, e gli incontri casuali dei ragazzini di Play toccano la coscienza ma sono, in fondo, assurdi.
Triangle of Sadness non è che un traguardo consequenziale, dove la classe borghese dominante si riveste di oro luccicante, ma che con sferzante ironia un secondo dopo vomita e defeca ininterrottamente. Come per dire che all’ipocrisia c’è un limite: prima o poi tutta la me… viene a galla.
Triangle of Sadness: un’analisi tra Salò di Pasolini e Orwell
Al nostro Östlund d’altronde piace allegorizzare sull’assurdità di una certa classe borghese sempre dominante, mai colpevolizzata ma sempre colpevole (iconica la coppia di anziani britannici, ospiti sullo yacht e apparentemente innocenti). Triangle of Sadness è quindi socialista inteso alla maniera di Salò o le 120 giornate di Sodoma? In realtà, se Pasolini impavido porta un messaggio estremizzato, Östlund dipinge sadicamente i ricconi borghesi come prime vittime della loro stessa ipocrisia (senza però che se ne rendano conto). Potere al popolo non è il mantra di Östlund, che con la terza parte (e ultima) del film riscrive le prime due deludendo i riformisti più esaltati, che fino a quel momento tifavano per lui.
Attraverso il personaggio di Abigail il film devia verso una parabola orwelliana, da cui “gli ultimi” che “saranno i primi” sfruttano la loro nuova situazione di vantaggio trasformandosi nei nuovi padroni. Abigail ha il potere e da sfruttata diventa la figura dominante nel contesto dell’isola. Uno spazio primordiale in cui lo stato sociale ritorna al grado zero, come dimostra anche la scena sull’uccisione dell’asino trovato nella selva, e le pitture rupestri che seguono.
L’umanità è nata così. E l’essere umano è un’animale assetato di potere per natura. Ancora una volta una provocazione che Triangle of Sadness lancia al pubblico borghese di Cannes, un po’ come lo aveva fatto con il finale politicizzato di Play. Östlund in effetti non sembra preoccuparsi di soffiare sulla fiamma della polemica; e con una satira cartoonesca, stende un velo pietoso su un concetto sociale che però va aldilà della “classe” vera e propria.
Veramente un film da Palma d’Oro?
Nel complesso Triangle of Sadness non perdona, perché i primi, ancora una volta, a cui Östlund fa la morale non sono i classisti, capitalisti o il sistema nel complesso, bensì l’umanità in toto dall’alba dell’homo sapiens fino ad oggi. Il discorso è fuori da ogni influenza di tipo politico partitica, Triangle of Sadness non ha paura di sbagliare – anche se nel finale purtroppo lo fa – ed è da lodare la scrittura ironicamente graffiante di Östlund, che oltre ad essere un autentico maestro contemporaneo dietro la macchina da presa, lo è anche di fronte a carta e penna.
Non sorprende quindi l’insistenza del Festival di Cannes che, fin dal suo primo lungometraggio, ha sempre avuto uno spazio in concorso dedicato all’autore svedese. Già con The Square il premio valeva la candela non tanto perché il film sia così strabiliante, tanto per la sua capacità di dividere e accendere il dibattito; ancor di più il discorso vale per Triangle of Sadness.
L’ultimo film di Ruben Östlund è sarcastico dal primo minuto, mette in evidenza le ipocrisie dell’uomo moderno borghese e soddisfatto del proprio infimo operato nell’aiutare il prossimo, nel considerare la società un unico organismo in cui tutti stanno bene (“everyone’s equal” recita una scritta alla sfilata di Yaya nelle scene iniziali).
Ma l’etichetta “uomo moderno borghese” non vuol dire per forza “ricco e facoltoso”; si può rimanere ingannati in questo tranello, del quale però il regista chiaramente ne rinnega i fondamenti. Infatti, i ricchi e facoltosi sono in tale posizione perché noi li abbiamo voluti mettere, nel caso contrario: cosa succederebbe?
Se si è un “uomo (o anche donna) moderno borghese” lo si è sia povero sia ricco, sia bianco sia nero, sia sano sia storpio, e in questi casi è sempre bene ricordare il famoso detto: chi va con lo zoppo, impara a zoppicare.
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